Quel luogo di memoria e immaginazione detto Italia che crediamo di conoscere da sempre.

 

Nel 2015 Adelphi pubblica un voluminoso tomo di quasi 500 pagine riccamente illustrato. Che Dio benedica Adelphi e questo saggio scritto con una prosa incantevole, ricercata e dotta dalla professoressa Anna Ottani Cavina.

Quel luogo di memoria

Il titolo è Terre senz’ombra. Il cuore segreto, senza tenebre, di questo libro senza pari è “Quando il paese diventò paesaggio”.  Un viaggio straordinario nella storia tra ‘600 e ‘800 che inquadra la storia della pittura da un’angolazione singolare come il paesaggio italiano, mentre si afferma come paradigma nuovo, saturo di rimandi letterari, filosofici e sentimentali.

Sotto il pennello degli artisti che vennero in Italia, soprattutto dal nord Europa, cambiò il modo di guardare e dunque di essere del nostro paese, l’en plein air divenne il modo privilegiato e aulico di conoscere e di rappresentare. Al punto che, scrive Ottani Cavina, il paese reale si sia modellato su quello dipinto, avendo gli artisti reso visibili, in tempi diversi, sequenze diverse del suo DNA.

Qualche giorno addietro la Gam di Torino ha invitato l’autrice del libro per una conferenza dal titolo: “Italia dipinta. L’invenzione del paesaggio”. La gentilezza della professoressa ci ha permesso di rivolgerle qualche domanda a seguito della sua illuminante conferenza.

Quel luogo di memoria

Johan Christian Dahl Dalla finestra, il Castello di Pillnitz a Dresda 1823

Tra le migliaia di mostre, cosa non riusciamo più a cogliere, a vedere davvero, delle opere raccolte nelle esposizioni: è come se le relegassimo al puro intrattenimento e non più come una grande occasione. Pare siano divenute più una forma di piacere fuggevole. Non più una grande occasione per sapere e per conoscere.

Credo che sia un tema di cui abbiamo parlato molte volte, ed è relativo alle stagioni nella vita. Le mostre in passato erano molto più rarefatte, avevano dei tempi lungi di organizzazione, programmazione e dove contava molto il curatore, mentre oggi è spesso un’agenzia che organizza queste cose.

Quel luogo di memoria

Joseph Mallord William Turner Il campanile di San Marco e Palazzo Ducale 1819

Un tempo avevano forse meno pubblico, certamente meno guadagno, quindi oggi hanno un impatto più forte, però c’era sempre una coincidenza: la regola era che c’era sempre una coincidenza fra una lunga ricerca alle spalle e una comunicazione del progetto, al Louvre, per esempio avevano una programmazione di 10 anni. Oggi è molto diverso e non saprei giudicare, nel senso che c’è stato un tempo in cui le mostre portavano novità prima ancora che un libro, un testo impiegava molto prima di uscire.

Oggi le mostre in gran parte, specialmente in Italia, si aprono a un pubblico larghissimo ciò è molto bene, andare alle mostre piuttosto che in altri luoghi. L’altra cosa è che oggi abbiamo la tecnologia. Che ha cambiato completamente il mondo. Sia di lavorare che di leggere le cose.

Chi voleva vedere un’opera di San Gaudenzio Ferrari doveva andare a piedi sui sacri Monti di Varallo, nel giro di vent’anni, è mutato tutto. Se penso a questo rapporto, che in passato è stato un rapporto proprio fisico, con l’opera che andava scansionata nella mente perché non c’erano altri modi per fermarla. Questa conoscenza dell’opera era diretta, contemplava la sua fisicità.

Oggi è molto più facile connettere e creare un rapporto diretto con le opere, trarne le conclusioni in gran parte senza dovere fare questi lunghi pellegrinaggi, che probabilmente non ci saranno più.

Adam Elsheimer Fuga in Egitto (particolare) 1609

L’idea che molte opere antiche esposte nelle mostre, non siano più dove erano state concepite, le chiese in particolar modo, estrapolate dal luogo per cui erano state immaginate non crede porti a privarle di ogni segreto e contesto.

Sì, questo è vero. La prima di questo enorme, diciamo spaesamento dell’opera accade con le impossessazioni napoleoniche e con la Fondazione dei musei, cioè i musei, sono i primi che dalle raccolte principesche, dalle chiese, dalle sacrestie, da tutto raccolgono.

Nel momento di fine 700, quando cominciano i musei, 800 e così via, nella costruzione di un museo subentra un’altra regola, l’idea di costruire una sequenza cronologica, un contesto per cui nella sala l’opera diventa leggibile insieme ad altre di quella cultura che le assomigliano. Si sostituisce così una condizione originaria con un’altra che è artificiale, ma che ha uno schema che poi è durato per molto tempo.

Recentemente anche questo è crollato perché tutti i musei oggi hanno delle impostazioni tematiche piuttosto che tecnologiche. Non serve più ricostruire il contesto quindi anche la leggibilità di queste opere. C’è un modo diverso di costruire le esposizioni.

La Professoressa Ottani Cavina durante la conferenza

Ancora ancora una cosa. Che cos’è che è ancora capace di istruirci al meglio? Se dovesse fare una specie di piccola pleiade di cosa vale veramente la pena leggere e conoscere?

Credo che ci siano talmente tante opzioni tante possibilità che ha oggi un ragazzo. Ripensando per esempio nella mia vita. A un certo punto è accaduto qualcosa che è stato veramente miracoloso.

La nascita de “I Maestri del colore”, idea dei Fratelli Fabbri, e il suggerimento di Longhi di mettere le immagini al livello più alto possibile, con i testi di storici dell’arte, preparatissimi, molto scelti, ma costretti a scrivere tutto in una gabbia di due cartelle, quindi leggibili e comprensibili.

Ha scardinato tutti i manuali, perché la lista fatta da Longhi allora metteva sullo stesso piano, con un fascicolo dedicato Caravaggio, un altro artista. E’ stata un’operazione di grandissima divulgazione, altissimo livello, un po’ come nella vita di oggi, il digitale, che se condotto in un certo modo apre delle chance meravigliose.

I miei riferimenti sono stati una cultura, diciamo longhiana non diretta perché ho avuto occasione di conoscere storici dell’arte come Francesco Arcangeli. A distanza, devo dire che i maestri che in quell’ambito ho scelto sono stati i più eretici, cioè Federico Zeri e Giuliano Briganti, quelli che hanno studiato cose che a Longhi avevano fatto orrore e che non hanno usato una lingua longhiana.

Era molto pericoloso e innamorarsi di quei modelli inimitabili, perché si poteva finire per essere uno specchio deformante, a fare gli Arbasino. Andavano per altre strade e non tutte si sono rivelate sbagliate, perché questa autoreferenzialità che abbiamo noi, come se fossimo ancora la Firenze del Rinascimento è davvero eccessiva.