A Torino è ufficialmente Art Week. La città torna a vestirsi di arte come di un abito di gala: elegante, luccicante e soprattutto indossato una sola volta all’anno. Le fiere si moltiplicano, i quartieri si reinventano per qualche giorno; tra un open studio e un cocktail, la città si concede il lusso di sentirsi europea, contemporanea, viva, raccontandosi come capitale culturale. Ma la settimana dell’arte torinese è sufficiente a fregiare la città a tale baluardo o è solo un evento da calendario, buono per il turismo e le foto su Instagram?

Chiacchiere informali con chi il mondo dell’arte torinese lo vive ogni giorno, restituiscono un ritratto ben diverso dai proclami ufficiali. Ne emerge una città ancorata al passato, che si specchia compiaciuta nei riflessi sbiaditi dei propri fasti sabaudi, rifugiata nell’ombra di se stessa: un luogo che sublima l’ordinario e celebra, con seriosa poeticità, quelle «piccole cose di cattivo gusto» di gozzaniana memoria che rassicurano e non inquietano.

In questa inclinazione alla contemplazione nostalgica, Torino ha finito col trascurare i propri spiriti più inquieti e visionari; coloro che, con coraggio, avrebbero potuto condurla oltre i confini della sua elegante inerzia. Ieri Riccardo Gualino, mecenate e imprenditore dalla lungimiranza quasi eretica, spesso relegato ai margini della memoria civica; Carol Rama, artista radicale e immensurabile, che solo postuma ha ottenuto quel riconoscimento che la città in vita le aveva a lungo negato. Benché, il sequestro di solo pochi mesi fa di oltre duecentocinquanta falsi della Rama da parte del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri di Torino suggerisca ben altro.

Riccardo Gualino

L’opera delittuosa del torinese incensurato individuato dagli inquirenti come l’artefice, non è soltanto un episodio di frode, ma una metafora amara. In fondo, chi ha falsificato Carol Rama non ha fatto che intercettare una verità latente: a Torino l’arte si può ancora trattare come un bene di scambio, come un investimento al ribasso, come un affare da concludere al prezzo più conveniente. È l’immagine di una città che, pur adornandosi dei simboli della cultura, fatica a riconoscere il valore autentico di ciò che produce e che, forse, nel suo stesso modo di mercanteggiare il genio, rivela quanto poco ancora sappia coltivarlo.

Forse, dunque, il paradosso torinese si può racchiudere in un’immagine semplice e crudele di Gustav Mahler, compositore e direttore d’orchestra austriaco di fine Ottocento: una Torino maggiormente impegnata ad adorare le proprie ceneri anziché a mantenere vivo il fuoco dello spirito, delle energie e dei valori ereditati dai propri antenati. Una Torino che celebra ciò che resta, contempla il passato con riverenza, ritualizza l’arte come un evento in agenda, ma senza coltivarne la linfa vitale.

E così, mentre la città si proclama capitale culturale e si veste a festa per l’Art Week, resta sospesa la domanda iniziale, sferzante e necessaria: a Torino l’arte è ancora un linguaggio condiviso o solo un evento da calendario, buono per il turismo e le foto su Instagram?

Jessica Matarrese