Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

Eugenio Montale non l’avrebbe mai immaginato. Ma questo suo intenso e semplice verso calza a pennello. La musica rap e trap ascoltata dai giovani esprime un senso di non appartenenza, di rabbia, di difesa, di rifugio emotivo. Parlare di un genere musicale in continua evoluzione significa dover cambiare prospettiva. Significa allontanarsi dalla musicalità classica, dall’equilibrio armonico tra suoni e ritmi, tra pensieri e parole ed imparare a conoscere una modalità di disposizione e di esplorazione identitaria completamente diversa, un’espressione artistica controversa, nella quale il valore culturale è quasi assente.

Critiche a parte, la musica sia rap che trap gode di un successo massmediologico quasi totale. Complici la radio e gli Highlight su Spotify e su altri canali musicali.

Fortemente apprezzati dalle giovani generazioni, i rapper rappresentano un modello di comportamento da emulare. Quando il rock classico, il prog e il punk perdono consensi la musica rap, dal quartiere newyorkese del South Bronx e dalle aree disagiate, prevalentemente “nere”, raggiunge tutti i continenti, trasformandosi in strumento di protesta e di denuncia. Temi quali il razzismo, la politica, la povertà, la violenza tra gang hanno reso il rap anticonformista. La caratteristica principale è la condivisione: condividere con gli altri il disagio, la voglia di riscatto sociale, i problemi personali. Le rime e i ritmi utilizzati sono uniformi, anche se il binomio rima-groove viene stravolto. Prevalgono le figure retoriche cantate o parlate, che hanno un potere dirompente sulle emozioni, sugli stati d’animo. Si nota una sorta di contaminazione tra canzonetta pop e quasi-rap, su basi imitative e ripetitive. Complice l’uso dello slang regionalistico, che rende i brani incomprensibili. Il valore testuale, infatti, è quasi assente. Ultimamente, comunque, si salva grazie alle sane contaminazioni con il rock, il metal, il jazz e il funky-soul. Così la musica rap è spesso metaforica.

La musica trap, invece, è spregiudicata. I trapper amano i contenuti violenti, spesso volgari con allusioni omofobe e sessuali.

La donna è umiliata e poco valorizzata. Le opinioni espresse nelle canzoni, a volte in maniera sconsiderata, parlano di dominio, di possesso e rappresentano la donna in modo stereotipato. Pochi cantanti la considerano fonte di ispirazione e ne esaltano la femminilità, l’indipendenza e l’emarginazione. E le donne trap? Non si difendono, ma peggiorano questa visione distorta della propria dignità, rimarcando l’immagine del proprio corpo in modo seduttivo-sessuale (aspetti che il rap originario ha sempre combattuto).

Di certo quasi tutti i trapper sono ragazzi disagiati, che proiettano un’immagine aggressiva e sovversiva. Nei loro testi si parla anche di stupefacenti, di tossicodipendenza, di ribellione alle regole precostituite, ad una vita ingabbiata nelle convenzioni relazionali e sociali. Non solo musica, quindi, ma anche bias culturali (visioni distorte nei giudizi e nelle scelte), bisogno di trasgressione e di omologazione, ricerca dell’agiatezza e del guadagno facile. Spesso, infatti, ostentano una ricchezza contestualizzata. Riscuotono successo e soprattutto consenso, ma la loro musica ripetitiva li intrappola (il termine trap non a caso proviene dalla parola trappola) – senza nessuna volontà di cambiamento o di emancipazione – nella condizione di emarginazione sociale.

E i giovani di oggi?

L’adolescenza è un periodo molto delicato. Spesso quando si presenta un conflitto (con i genitori, la società, con se stessi), alcuni ragazzi si esprimono attraverso la rabbia e la ribellione. Raramente ascoltano i consigli degli adulti, che potrebbero servire a saper sviluppare un pensiero critico indipendente. Raramente accettano di farsi aiutare per trovare la propria dimensione esistenziale. E si isolano nella musica e con la musica, ammaliati dalla propria auto-espressione.

Per molti adolescenti, dunque, la musica rap e trap diventa una via di fuga, di distacco dalla realtà, un conforto emozionale che provoca, promuove e difende una visione distorta della società. Molti cantanti, rappando e trappando, celebrano una sotto-cultura aggregativa fortemente ideologizzata e manipolata. La maggior parte dei testi esalta l’aggressività e la criminalità, l’uso dell’alcool e della majurana, Deformano e falsificano, così, il concetto della legalità, del rispetto di se stessi e dei valori etico-morali.

Inoltre, utilizzano un linguaggio aggressivo e spesso volgare, che i giovani ricalcano, perché esprime la volontà di provocare un gap generazionale preoccupante. Conseguenze? Dialogo quasi assente, difficoltà a parlare di sé e di condividere i propri pensieri, reticenza, mancanza di sicurezza, crisi di identità. E’ ipotizzabile che un comportamento del genere non sia causato solo dalla musica che ascoltano. E le parole “ribelli” utilizzate nei testi non li aiutano ad essere oggettivi, a guardare il mondo da un’altra angolatura, a prendere posizione, a non uniformarsi, ad essere indipendenti dai condizionamenti di un disagio giovanile, che quasi sicuramente non avvertono, ma lo condividono lo stesso attraverso le emozioni.

Vince la dinamica aggregativa, la visione “alternativa” della vita personale e della società. Decifrare questo comportamento o linguaggio è davvero difficile e dare dei consigli diventa quasi impossibile. Non aiuta neanche il criterio del divieto o della censura. Certo, ogni generazione ha la sua musica, ma la musica forma una generazione. O la deforma.

Una via d’uscita? L’ascolto condiviso. Forse è una modalità di avvicinamento ad un mondo musicale fortemente contraddittorio e falsato anche dagli editori. Ma esistono produttori eccellenti ed artisti di alto livello, come Kanye West, Snoop Dogg, Joseph Simmons, Coke La Rock e Kendrick Lamar.

Non è facile rimanere interconnessi con un genere musicale singolare e contagioso. Un genere “altro”, che non predispone all’ascolto. Quell’ascolto sano, maieutico, tutto personale e profondo, che sa di viaggio immaginario e di continue commozioni. Che vuole sorprendere, perché ogni nota, ogni parola provoca un dialogo tra colui che canta e colui che ascolta. Un’esperienza intensa e “spirituale”. I rapper e i trapper si rappresentano attraverso il proprio malessere, spesso solitario e senza nessuna prospettiva.

E’ giusto denunciare, è giusto evidenziare un disagio, ma non basta. Servono idee e propositi per desiderare un cambiamento nel proprio modo di pensare e di essere. Nel proprio modo di agire, di vivere la vita, di avere speranza. Perché si è sempre in vetrina, una vetrina mediatica che può oscurare o banalizzare la verità.

L’espressione musicale è personale, certo, così come la propria visione dell’uomo e sull’uomo ma, per i giovani di oggi, il punto di vista di un cantante, esposto ed imposto musicalmente potrebbe diventare deleterio e sovversivo.

Solo la cultura, la conoscenza oggettiva di quei fatti o situazioni gridate attraverso i testi delle canzoni può fare la differenza. Quando si combatterà la stupidità di massa che, secondo lo psichiatra Vittorino Andreoli, è il principale nemico del nostro tempo, una buona idea potrà generare un buon pensiero e un buon pensiero potrà eternare una buona musica.

E le canzoni rap o trap, per adesso, non hanno questo obiettivo.

Maria Giovanna Iannizzi