Cosa resta oggi del viaggio di Marco Polo, a sette secoli dalla sua morte? Forse non le mappe, non le rotte tracciate, ma le immagini: quelle interiori, sospese tra memoria e invenzione, che continuano a popolare il nostro immaginario sull’alterità e l’altrove. È su questo terreno fertile, dove storia e percezione si intrecciano, che si innesta Le Divisament dou Monde: disegni italiani sull’Estremo Oriente, la nuova mostra promossa dalla Fondazione Garuzzo di Torino, che da anni lavora a tessere ponti tra l’Italia e la Cina, e ospitata dall’8 maggio alla China Academy of Art di Hangzhou.

Il titolo stesso, tratto dalla prima versione de Il Milione, suona come un manifesto: “la descrizione del mondo” non è solo un atto di narrazione, ma un gesto di interpretazione. Oggi, come nel XIII secolo, raccontare significa tracciare, delineare confini mobili, reinventare l’Altro (e noi stessi) attraverso il linguaggio. E forse non poteva che essere il disegno, lo strumento scelto dalla mostra tra tutti i linguaggi, a farsi carico di questa narrazione: insieme fragile e potente, primitivo e concettuale. In un’epoca saturata di immagini digitali e performatività estetiche, il ritorno al disegno come atto intimo e rivelatore rappresenta quasi una forma di resistenza culturale.



Curata da Angela Tecce, la mostra riunisce quarantaquattro artisti italiani — tra maestri affermati e voci emergenti — in un dialogo estetico e simbolico con l’Asia orientale. Alcune opere sono state create appositamente per l’occasione, e proprio nella loro genesi si coglie la tensione viva tra visione storica e sguardo contemporaneo. Disegnare il mondo implica ancora, forse più che mai, un gesto duplice: tracciare una forma e, insieme, lasciare emergere un senso.
Ecco, allora, che il disegno, inteso come linguaggio visivo primario, diventa anche di-segno: forma di pensiero, di visione, di costruzione di senso, segno separato da interpretare. Un “ambisegno”: duplice e dialogico. Ogni segno tracciato, infatti, è già una mediazione, non uno specchio poiché l’alterità non viene mai oggettivamente descritta: viene filtrata, ricodificata, spesso trasformata — e dunque reinventata — nel momento in cui passa per il gesto dell’artista. Nessun disegno mostra l’Altro com’è, ma come lo si immagina, lo si percepisce, lo si sente. L’altrove, qui, non è più un esotismo da rappresentare. È una distanza che interpella, una differenza che mette in moto lo sguardo. I disegni in mostra sono l’eco visiva di una relazione culturale antica, rinnovata però da una consapevolezza contemporanea: quella che sa riconoscere l’Altro come interlocutore, non come decorazione narrativa.

Non sorprende, allora, che questo gesto — il disegno come forma di traduzione — trovi una risonanza profonda proprio nella cultura che oggi accoglie la mostra. Nella lingua cinese, scrivere è già disegnare: ogni parola nasce da tratti che, prima di essere letti, devono essere visti. È una lingua che obbliga lo sguardo, che educa a leggere la forma prima ancora del suono. Così, il disegno e la scrittura si incontrano in una stessa origine: una grammatica visiva che traduce il pensiero in immagine. Portare il disegno italiano contemporaneo in questo contesto equivale a parlare una lingua comune, ma con accento straniero: una sfida e un omaggio.

Le Divisament dou Monde, infatti, è anche un’operazione di diplomazia culturale. Realizzata in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, l’Ambasciata d’Italia a Pechino, gli Istituti italiani di Cultura di Pechino e Shanghai, la ICCF- Italy China Council Foundation e la Camera di Commercio italiana in Cina, si inserisce nelle celebrazioni ufficiali per Marco Polo (1254 – 1324), ma va ben oltre la commemorazione. In un tempo in cui i confini culturali sembrano irrigidirsi sotto la pressione geopolitica, la mostra rivendica la potenza lenta ma radicale dell’immaginario. E il disegno diventa la soglia: luogo della porosità, della risonanza, della domanda aperta. Ogni segno è anche un silenzio, ogni figura un’interruzione. Come a dire che l’incontro non si consuma nella comprensione, ma nella possibilità stessa di tracciare insieme.

In fondo, Marco Polo non ci ha lasciato una geografia: ci ha lasciato un metodo. Guardare, ascoltare, ricordare — e poi raccontare. Proprio come fa, oggi, il di-segno di questi artisti italiani, che si fa spazio di coesistenza. Non uno stile, ma un modo di stare: insieme, ma distinti; in ascolto, ma non in silenzio; visibili, ma non esposti. E in questo gesto discreto — che è anche poetico, anche politico — forse si nasconde l’unico atlante ancora possibile.
Jessica Matarrese