“In quelle splendide giornate, entusiasmanti, ho scattato le più interessanti fotografie di roccia della mia vita, come quella dello spettacoloso “salto di Giorgio” presa dallo spigolo della Brenta alta, a piombo sulla Bocca di Brenta.”
Quando scrisse sul suo taccuino questa nota Silvio Pedrotti di una nota famiglia di fotografi attiva tra gli anni 30 e gli anni 60 in Trentino, era consapevole di avere farro qualcosa di importante, ma chissà se fosse pienamente consapevole di quante implicazioni e significati potesse avere quell’immagine.
Probabilmente nel 1934, Silvio Pedrotti e Giorgio Graffer, giovane rocciatore e aviatore fuori dagli schemi, già noto per le sua arditezza ed intraprendenza, intrapresero la scalata del massiccio della Brenta Alta.
Graffer che già in altre occasioni si era distinto per la sua naturale abilità di intravvedere nuove e ardite traiettorie in parete come in cielo (abilità che spesso fu confusa per sfrontata disinvoltura), volle affrontare un passaggio molto difficile: il superamento della fenditura che separa il corpo della montagna dal pinnacolo della Madonnina e volle farlo alla sua maniera: saltando come un funambulo dall’uno all’altra, contando solamente su intuizione ed agilità.
Conosciute le intenzioni dell’amico, Pedrotti comprese immediatamente che quella era l’occasione per allestire uno scatto fotografico che non solo sarebbe diventato uno dei più iconici della storia dell’alpinismo (in particolare di quello eroico ancora praticato a quei tempi), ma che avrebbe testimoniato anche della temperie culturale e artistica di un’epoca; quella espressa in particolare dal secondo futurismo, al quale Pedrotti non era estraneo, avendo lui stesso e il fratello Enrico condiviso, in più occasioni, le teorie di Fortunato Depero, anch’esso trentino.
In quel momento cruciale, Graffer e Pedrotti collaborarono infatti in egual misura a dare corpo, in modo assolutamente efficace, anche se forse non del tutto consapevole, alla creazione di un’autentica opera d’arte del tutto particolare. Il salto racconta, non solo di un rapporto di intensa amicizia umana e intellettuale (precondizione ineludibile per questo ambizioso risultato artistico), ma del significato stesso del valore delle fotografia e, inaspettatamente, del destino di una vita, quella di Giorgio, che già appare anticipato nella sua incontrollabile tragica forza. Per entrambi, si trattò, a tutti gli effetti, di un momento decisivo, sia sotto il profilo artistico e sotto quello esistenziale.

Entrambi nel “salto” fanno qualcosa di inaudito e radicale. Pedrotti riesce nell’intenzione di idealizzare, grazie al particolare utilizzo che fa della potenzialità della sua Leica, il soggetto nella pura plasticità della performance; verticalizzando la direzione dell’inquadratura dal basso verso l’alto ed esasperando i contrasti di luce. Mentre Graffer riesce in un gesto atletico, semplice somma di corpo e di azione individuale in cui afferma il proprio temperamento e la propria individualità.
Ma il dato più significativo sta nel fatto che Pedrotti con la sua intuizione estetica di Silvio e Graffer con la sua prodezza riuscirono a cogliere il senso dell’azione in sé e lo fecero creando una forma che racchiudesse in se stessa una pura forza, come una superficie che celasse e palesasse al contempo una profondità. Riuscirono, in definitiva, a creare un’opera d’arte nel senso più forte del termine.
Lo fecero attualizzando nel modo più tangibile il significato delle tesi del Fotodinamismo futurista di Anton Giulio Bragaglia, che predicava la necessità di ricostruire le traiettorie e le dinamiche dei gesti, di esaltare e rendere tangibile la sensazione fisica del movimento, ricercando effetti che soltanto l’obiettivo può afferrare. Dettero anche un senso concreto a quell’anelito di libertà di volontà dell’inedito, di amore per il movimento e il tumulto, affermato da Filippo Marinetti. E lo fecero in assoluta purezza, senza indulgere nella megalomania e nell’istrionismo come accadeva a molti artisti dell’epoca.
Ma Il “salto” è ancora qualcosa di più. Non è solo un momento d’arte, in cui si afferma il valore della fotografia che, emancipata dalla funzione di mera riproduttrice della realtà, diventa strumento che coglie ciò che essenziale; di ciò che non è alla porta della mediazione delle parole. Nel “salto” si concentrano, in un atto di gioia e di autentica dell’esistenza, emozioni e sensazioni, che per essere davvero istintivamente efficaci, vengono, con estrema lucidità condotte alla massima intensità, fino ad includere fatalmente il pericolo e la possibilità della morte e della scomparsa del suo interprete.
Paradossalmente un’immagine che voleva esaltare la l’affermazione dell’individuo, di fatto ne implica la possibilità della cancellazione. Ma si tratta di un paradosso apparente. A ben vedere, l’estrema volontà di astrazione, ottenuta mediante l’espulsione di ogni elemento estraneo o inutile ai fini dell’azione, la vacuità irreale della luce suffusa e lattiginosa, le traiettorie geometriche che dividono lo spazio, la sfumatura dei grigi che focalizza l’attenzione sull’immagine scura ed astratta del saltatore, puro concentrato di intensità, fa sì che scompaia l’interiorità della coscienza e con essa quella del soggetto stesso. Il salto realizza un’arte che, aspiri al proprio annullamento; che si affermi per immagini, sensazioni e simboli; come in uno spazio neutro, libero dal peso della discorsività, aperto verso l’ignoto e l’indicibile.
Non a caso, questa immagine espressione dell’energia materiale, della gioia, del conflitto con la forza e con la resistenza della realtà, della volontà di proiettarsi oltre l’ostacolo, dell’accettazione del pericolo che tale condizione comporta, anticipò anche il senso di un destino: quello del suo stesso soggetto. Questo si fece, solo qualche anno dopo, realtà; quando, nel novembre del 1940 nei cieli albanesi, Graffer cadde, entrando, con il suo areo in collisione, nel corso di un duello, con quello del suo avversario inglese.
Entrambi si misurano, fino all’ultimo, emulando le rispettive arditezze. Così Il giovane pilota e rocciatore scomparve, tracciando nel cielo, come era nella sua natura, inconsuete e temerarie traiettorie acrobatiche. Un ultimo estremo tributo alla purezza dell’azione.
Luigi Vigliani