Ad aprire il mese di dicembre, dal 1 al 4, c’è l’utopia operativa che il Festival del Classico genera attraverso un programma fitto e intricato come le vicende dell’età classica di cui si fa traghettatore per restituircele nella loro valenza storica e collegarle al presente. Lo fa impegnandosi in lezioni, reading, dialoghi, dispute dialettiche e teatro. Il tema su cui verte questa quinta edizione è attualissimo, imprescindibile, necessario di comprensione antica e contemporanea ed è declinato i tre parole che da sole ne restituiscono il senso.

Condanna, diritto, utopia.

L'utopia operativa del Festival del Classico

Una riflessione che si dipana tra filosofia, filologia, storia, sociologia, politica e linguistica per evidenziare le drammaticità, le possibilità e il racconto di cosa è stato il lavoro e come  lo si è esercitato e pensato nella storia. Il progetto nasce dalla Fondazione Circolo dei lettori, presieduto da Luciano Canfora e curato da Ugo Cardinale.

Proprio dal discorso del Professor Cardinale, che pone le basi dell’inizio del Festival nel giorno d’apertura, riceviamo e volentieri riproponiamo per esteso il suo appassionante e dotto discorso.

Intro Lavoro: condanna, diritto, utopia

“L’edizione del festival di quest’anno affronta un tema cruciale, non declinabile in formule semplici. Tre definizioni accompagnano la parola chiave di quest’anno Lavoro: condanna, diritto, utopia.

Arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Questo motto posto all’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz manifesta già nella sua ambiguità e ambivalenza la falsa etica di una vera impostura e racconta una storia rovesciata, anche se non del tutto falsa.

Si può dire che il lavoro sia sinonimo di libertà?

Per tanto tempo il lavoro non è stato sinonimo di libertà, ma del suo contrario. Nel mondo antico. E ancor più nel paradossale campo concentrazionario.

Nella filosofia aristotelica Il lavoro è stato associato alla servitù, alla costrizione, alla dipendenza da altri. E la libertà è stata concepita come condizione di autonomia, spazio dedito alla propria realizzazione, libero dal lavoro. Si può dire anzi che nella concezione di Aristotele e di Senofonte Il lavoro rende libero chi non lo fa. L’uomo libero non lavora grazie a chi lavora.

Lavoro quindi è parola dal significato negativo, espressione di un incessante degrado fisico senza riposo, strumento della vita della casa, dell’oikos, ma estraneo alla vita della polis. E da dove viene allora quella centralità e dignità del lavoro che sta alla base della nostra Costituzione repubblicana? Art. 1 L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro?

Il nostro incontro con i classici questa volta ci chiede di guardare alla storia nella sua complessità, senza le semplificazioni della cancel culture, che liquiderebbe il pensiero dei filosofi classici, ma con uno sguardo critico e problematico, che parta dalla storia e riveda la stessa etimologia della parola lavoro.

La storia mitica

I miti delle origini raccontano un mondo originario felice, l’età dell’oro, cui sarebbe seguita la rottura di quel rapporto armonico con la natura e con la divinità, per spiegare la realtà del lavoro duro, della fatica, della lotta con il “sudore della fronte”, come una condanna e una punizione divina.

Eva e Pandora ne sono l’emblema; due donne: l’ambiguo malanno”. La donna appare responsabile della caduta di Adamo nella tradizione biblica e della violazione del divieto di apertura del vaso, ricevuto in dono dagli dei, ermeticamente chiuso, nel poema esiodeo che parla di Pandora.

L’ingresso del dolore e della fatica sarebbe stato colpa della donna, dunque? Un luogo comune certamente da sfatare, ma la cultura antica vede anche la donna come soggetto rivoluzionario, protagonista dell’utopia di un monde renversé, ad esempio nella commedia di Aristofane, come vedremo nel reading di Olimpia Imperio, letto da Simonetta Valente. O la descrive attiva nel piccolo commercio (kapelikòn ) tra i mercanti dell’agorà, come testimoniano alcuni importanti reperti archeologici e gli studi antropologici (ne parleranno Maria Cecilia D’Ercole, Aglaia Mc Clintock e i direttori dei musei archeologici).

La storia del lavoro nel mondo antico si costruisce attraverso vari tasselli (il primo, ad esempio, attraverso la descrizione dello scudo di Achille, nel poema omerico, di cui parlerà Eva Cantarella) che non permettono però di ricomporre un insieme organico, anche per le lacune che restano aperte. I miti raccontano il dono del fuoco da parte di Prometeo agli uomini, un gesto di ubris punito dagli dei, la sottrazione di un’arte a un dio deforme, Efesto; un’arte presentata come abbrutimento del corpo, ma anche come strumento di crescita e di sviluppo dell’umanità. L’arte del dio Efesto, inventore di automi, e quella di Dedalo, creatore di statue animate, appare infatti anche come la premessa di un’emancipazione dal lavoro schiavistico e della robotizzazione odierna, come suggerisce Giorgio Ieranò nel suo intervento. I miti narrano anche “eroi o donne al lavoro”: la zattera di Ulisse, la tela di Penelope e le fatiche di Ercole, come racconterà Giulio Guidorizzi.

E’ lecito concepire l’utopia di un mondo liberato dal lavoro o un lavoro libero dalla fatica?

È uno dei quesiti su cui si interrogheranno gli esperti nelle tavole rotonde, prendendo spunto anche dalla “scholè” dei Greci, una condizione attiva che non aveva niente dell’ozio, ma che configurava un tempo libero dalla fatica fisica e dedito alla vita della mente. Il tema del lavoro evoca infatti un concetto ambivalente, non solo nella tradizione biblica e nella tradizione greco-romana.

La parola lavoro ha un’origine etimologica antica, ma l’uso moderno ne ha trasformato notevolmente il significato, come si può arguire dalla connotazione diversa della parola inglese labour che le è più vicina fonologicamente, che nasce dal riconoscimento di un valore al lavoro, sia pure un valore di merce. Perciò, se vogliamo capire la complessità del fenomeno odierno nel suo aspetto problematico, non possiamo limitarci a indagare soltanto il significato originario del termine “labor” da cui dobbiamo comunque partire. Indagheremo anche la storia del labour.

Labor, dal verbo laborare, vicino semanticamente a labare, vacillare sotto il peso, ha una connotazione prevalentemente negativa, evidente in molta parte della letteratura latina.

Cicerone nelle Tusculanae, ad esempio, discute la vicinanza del suo significato al termine dolor(dolore) e lo accosta al greco ponos, che richiama la brutalità della fatica fisica dello schiavo e ha la stessa radice indoeuropea di poena. Lavoro come pena è il primo significato dunque che troviamo cercando l’etimologia della parola. Un significato che sembra dominare la storia delle origini, come conseguenza della maledizione biblica di Adamo e della sua discendenza e di Prometeo colpevole di ubris nel mito esiodeo. Un significato che si trasmette anche alle parole di conio più recente come il francese travail, che è presente anche nei dialetti , come nel piemontese travajè, nel sardo traballu. La storia di quest’ultimo (travail) apparso in Francia a partire dal XVI secolo è curiosa: travail deriverebbe dal latino tripalium, uno strumento di tortura, composto da tre pali, anche se paradossalmente il travailleur non sarebbe stato la vittima, ma il boia!

La connotazione semantica del termine labor si è arricchita però anche di significati positivi. “Omnia labor vincit improbus” (Georgiche , I. 145-46) scriveva Virgilio, alludendo al lavoro indefesso del contadino per strappare alla terra i suoi frutti. Il lavoro segna la fine dell’età dell’oro, ma anche l’inizio del processo di incivilimento. Il rapporto con la natura nel lavoro agricolo tempra il corpo e lo rende armonioso. L’idea però che solo il lavoro dei campi sia gratificante, anche se faticoso, riflette il punto di vista del ceto aristocratico dominante nelle società antiche, che basa la ricchezza sul possesso della terra e concepisce l’economia (oikos nomia) come amministrazione della casa e del latifondo, attraverso l’esercizio del potere sulle donne e sugli schiavi, ridotti a strumenti parlanti. E concepisce la propria vita dedita a compiti elevati, come lo studio, l’amicizia e la politica, definiti con un diverso sinonimo di labor, dalla connotazione più positiva : in greco ergon /erga, in latino opus/opera.

Le altre attività produttive, come il lavoro artigianale che dipendeva da un committente, con tutta l’aleatorietà che comportava, e il lavoro mercantile, che alimentava l’avidità di moltiplicare denaro a partire da denaro, venivano guardate con disprezzo. Un punto di vista che non cambia ancora nel mondo medioevale. Lo stesso Dante, possidente agrario, anche se iscritto a un’Arte, gode del privilegio di ”non lavorare” e di dedicarsi agli studi e alla politica, ma disprezza la “gente nova e i subiti guadagni”.

Un fil rouge unisce il mondo antico al mondo medioevale: anche la società medioevale distingue gli orantes e bellatores dai laborantes, i servi della gleba.

Ma nell’età del Rinascimento la rivalutazione dell’edoné (il piacere), pone il problema di una conciliazione tra lavoro per la collettività e tempo per la scholè. Emblematica l’Utopia di Tommaso Moro (ne parlerà Carlo Altini) che prospetta una società ideale in cui tutti dedichino un tempo limitato al lavoro, che è ancora soprattutto agricolo, per poter lasciare lo spazio a tutti di dedicarsi alla conoscenza e al piacere. Lavorare meno. Lavorare tutti. Questo potrebbe essere lo slogan di Utopia, ripreso nelle battaglie del Sessantotto e che potrebbe avvicinarsi alle nuove battaglie che provengono dalla società americana riassunte nella formula YOLO (you only live once) o quiet quitting.

Ma la svolta più significativa nella storia del lavoro si è avuta con la Riforma protestante che non concepisce più il lavoro come condanna, ma come Beruf, professione, vocazione e prova dell’attenzione di Dio, segno della sua benedizione. Perciò, a partire dal XVIII e XIX secolo nella società industriale il lavoro diventa un valore: un “valore di scambio”. E lo scambio è di fatto mercato di merci.

Ma la mercificazione del lavoro ha mascherato alcune contraddizioni della società capitalistica, messe in luce da Marx, che non aveva comunque una concezione negativa del lavoro. Marx nei suoi scritti giovanili tra cui la tesi di laurea, di cui parlerà l’intervento di Luciano Canfora, riconosceva nel lavoro tecnico, richiamandosi a Epicuro, un modo di realizzazione della propria umanità, l’elemento distintivo dell’essenza del genere umano rispetto all’animale. Ma il suo atteggiamento era per certi aspetti contraddittorio, lasciando intendere anche che, libero dalla condizione di alienazione, nel “regno della libertà” il lavoro sarebbe stato abolito.

Anche in tempi recenti i progressi della tecnica, con gli effetti della robotizzazione, hanno dato per un momento l’illusione della “fine del lavoro” e si è diffusa l’idea di una “civiltà del tempo libero”, affrancata dalle costrizioni del lavoro. Ne è un esempio il testo provocatorio di Bob Black (L’abolizione del lavoro del 1985) di cui leggeranno alcuni passi alcune studentesse e studenti. Ma i tempi non sembrano ancora maturi e non è detto che non sorgano nuovi problemi nella riorganizzazione della società in vista di tale obiettivo. Gli scenari ottimistici, prospettati da Keynes nel 1930 nella conferenza, che in sintesi leggeranno alcuni studenti (e studentesse), Prospettive economiche per i nostri nipoti (che siamo noi), non sembrano prossimi alla realizzazione, nonostante l’accelerazione tecnologica.

Il capitalismo post-fordista, sempre più cognitivo, immateriale, fluido, flessibile non ha generato la “fine del lavoro”, ma l’aumento della sua precarietà e l’insicurezza sociale. La nuova organizzazione del lavoro e il diffondersi dello smart working ha aumentato un’apparente autonomia e indipendenza, ma gli scenari mondiali evidenziano ancora la stratosferica disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza di cui sono una macroscopica evidenza i guadagni degli influencer e quelli dei rider (o ciclofattorini, come sarebbe più trasparente chiamarli). Il rischio di un assoggettamento economico non solo da parte dello Stato, ma dei grandi monopoli digitali attraverso le lusinghe di un’apparente gamificazione, che sfrutta quello che è stato definito il nostro “volontario lavoro gratuito”, prospetta ben altro: un futuro distopico. Un reddito che sia di autodeterminazione e non di sudditanza è quanto mai necessario. Il reddito di base universale come misura di contrasto alla povertà può sembrare una soluzione utopistica, ma verrà affrontato con buoni argomenti nel dibattito moderato da Giuliana Ferraino, aperto alla discussione dei giovani.

Le migrazioni in un pianeta minacciato dalla desertificazione esigerebbero una soluzione globale dei problemi del pianeta: un diritto cosmopolitico, come quello di cui parlava Kant nel saggio Per la pace perpetua, con un chiaro richiamo al cosmopolitismo degli Stoici. E una soluzione comune ai problemi del lavoro, come suggerito dal Manifeste du travail, curato da Isabelle Ferreras, Julie Battilana e Dominique Méda, tradotto in 27 lingue, riassumibile nei tre slogan: democratizzare, demercificare e disinquinare. Fare in modo che per tutti il lavoro sia l’espressione e non la sospensione della vita.

Ma lo scenario distopico lascia ancora spazio all’utopia?”

L'utopia operativa del Festival del Classico

Ugo Cardinale, primo a destra con gli studenti.

 

Tra gli ospiti invitati c’era l’attrice Anna Bonaiuto , Ascanio Celestini, dove ha lavorato per decenni Primo Levi, Gianluigi Beccaria ha letto scritti sul lavoro. Il sociologo e studioso del lavoro Daniel Mercure ha dialogato  in collegamento dal Canada con il filosofo Giuseppe Cambiano; la giornalista Francesca Mannocchi discute di immigrazioni e umanità errante dall’antichità a oggi insieme a Luciano Canfora lo storico Aldo Schiavone dibatte sul futuro del lavoro insieme all’economista Stefano Zamagni e alla giornalista del Financial Times Silvia Sciorini Borrelli; la giurista e storica del diritto Eva Cantarella racconta la rappresentazione del lavoro sullo scudo di Achille; della Magna Grecia e delle città che non finiscono di rivelare frammenti della loro vita, Paestum, Ercolano, Pompei, discutono Tiziana d’Angelo, Francesco Sirano Gabriel Zuchtriegel, direttrice e direttori dei tre parchi archeologici; il filosofo Massimo Cacciari ragiona sul tema del lavoro a partire dal mito di Prometeo, mentre di sciopero e diritti dei lavoratori nell’Antico Egitto discutono il direttore del Museo Egizio Christian Greco e Rita Lucarelli, egittologa della Berkeley UC; del mito di Eva e Pandora, la fine dell’età dell’oro e il lavoro come condanna discutono il direttore della Fondazione Circolo dei lettori Elena Loewenthal con il grecista Giorgio Ieranò.

L'utopia operativa del Festival del Classico

Luciano Canfora

Uno spazio speciale è dedicato alle scuole, con il coinvolgimento degli istituti superiori torinesi e di altre città italiane come Roma, Salerno e Palermo, degli istituti italiani all’estero di Zurigo, Mosca, Losanna, Tunisi, Barcellona, Madrid, Cairo, Belgrado, Buenos Aires; In particolare, gli studenti delle scuole superiori tornano come protagonisti del format Torneo di disputa classica, sfida dialettica tra studenti e studentesse dei licei del Piemonte e della Valle d’Aosta, che vede due squadre impegnate in una competizione oratoria a partire da temi assegnati e con l’obiettivo di convincere i giudici della validità delle proprie ragioni su temi antichi ancora attuali.

Novità di questa edizione è il contest Leggilo e raccontalo, ideato sul modello dei Ted Talk e realizzato in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte, il Polo del ‘900, il Liceo Classico D’Azeglio e la Scuola Holden.