IL PORTONE DEL DIAVOLO

Quindici, Berlicche.

Il tenente Bernardo Bianchi serviva nel Regio Esercito di SAR Vittorio Emanuele I da ormai due anni.

Con la fine della dominazione napoleonica, il congresso di Vienna aveva restaurato i vecchi regnanti e rimesso sul trono del Regno di Sardegna i Savoia. Bianchi era stato assegnato alla Divisione Torino con la funzione di segretario e attendente personale del Maggiore Melchiorre Du Perril, soldato di tradizione, nonché nobile di chiare origini savoiarde.

Benché il ruolo di attendente appartenesse ad un preciso grado da ufficiale, il più basso nella scala gerarchica, le mansioni di Bianchi richiedevano un’esperienza più solida ed un grado sicuramente più elevato. Per questo motivo era stato scelto un tenente ad affiancare il delicato compito del Du Perril che, nell’esercito, sembrava svolgere mansioni che esulavano il normale addestramento o il comando delle truppe da battaglia.

Du Perril apparteneva infatti alla sezione investigativa del Regio Esercito; scapolo, sufficientemente riservato, veniva spesso impiegato dagli alti comandi per svolgere funzioni di massima segretezza e di collegamento con i livelli più alti dello Stato Maggiore.

Bianchi e Du Perril erano l’uno l’esatto contrario dell’altro: sembrava quasi che la coppia fosse stata appositamente assortita per generare una qualche forma di ilarità che mal si coniugava con la serietà dei loro compiti.

Se Bianchi era di statura medio bassa, leggermente tarchiato e con un viso dalle gote piene e rubiconde, Du Perril era alto, ben proporzionato; le basette scure sul volto abbronzato andavano a seguire il profilo dell’ovale fino a circondare il mento, lasciandolo glabro e ben rasato. Gli occhi neri contrastavano con quelli cerulei di Bianchi, e sembravano osservare costantemente tutto ciò che lo circondava. Anche la capigliatura, folta e scura sotto il chepì d’ordinanza, reclamava la sua dose di fascino in contrapposizione alla stempiatura del tenente che conservava solo più qualche boccolo candido in ricordo di fasti più giovanili.

Eppure Bianchi si era rivelato il più adatto al compito, la migliore opzione che potesse capitare. Riflessivo, intelligente, conosceva il latino e l’ebraico. Era un buon ascoltatore e possedeva la rara facoltà di intervenire solo al momento giusto, dote molto apprezzata dal Maggiore.

La carrozza nera stazionava già da una buona mezz’ora al lato del portone del Palazzo dei Principi di Carignano. Il temporale estivo si stava trasformando in un acquazzone che oltre a impedire la visibilità, aveva già gonfiato le fognature, preparandosi ad esondare dai tombini. Prima che l’uniforme divenisse completamente fradicia, Bianchi si spostò dalla cassetta del postiglione e decise di entrare nella carrozza. La temperatura era calata di colpo e, associata al cielo nero che si specchiava sul selciato, dava alla piazza un senso novembrino e decisamente autunnale. Le nubi vennero squarciate da un fulmine che attraversò l’aria dai tetti in coppo del palazzo fino alla cupola di San Giovanni, lasciando in mezzo San Lorenzo e i Dioscuri a guardia del palazzo reale, come se avesse voluto riunire in una lunga pirografia tutti i capolavori del Guarini. Il fragore del tuono che seguì da lì a poco, fu sufficiente a spaventare i cavalli: Bianchi scese di corsa a trattenere le redini; rassicurando le bestie con parole e carezze, prima che si imbizzarrissero.

In quel momento apparve il Maggiore. Correva attraversando il cortile e tentando di evitare le pozzanghere, coprendosi gli occhi con una cartella di cuoio scura. I pantaloni in panno grigio erano bagnati al punto da lasciar colare l’acqua negli stivali alti al ginocchio. Il cappotto azzurro dell’uniforme sembrava resistere, per quanto le placche in ottone e le filigranature dorate non risaltassero affatto come si sarebbe richiesto per un alto ufficiale. Si catapultò all’interno della carrozza lanciando la cartella sul sedile.

«Bernardo, » urlò cercando di sovrastare lo scrosciare della pioggia, «vola a Palazzo Madama. »

«Maggiore, con questa visibilità rischiamo di arrotare qualcuno. »

«Hai ragione. » replicò Du Perril. «Infiliamo la carrozza sotto il portone e copriamo i cavalli. Con questo sbalzo di temperatura non vorrei si ammalassero. »

«In effetti è davvero strano: un fenomeno che non si era mai udito prima, almeno a mia memoria. » constatò il tenente, che aggiunse: «Siete sicuro che i piantoni non abbiano nulla da ridire se sostiamo nell’androne? »

«Non credo che con questo temporale abbiano voglia di staccarsi dalle stufe dell’ufficio di picchetto. »

Occorse quasi un’ora a ché il clima si ristabilisse. Percorsero i pochi isolati fino a Piazza del Castello e disposero la vettura in mezzo alle altre, ferme a lisca di pesce sul lato est del palazzo, verso la Via di Po.

«Vieni con me. » ordinò il Maggiore rivolgendosi a Bianchi. «Sembra che il caso della ballerina non sia isolato. »

Du Perril afferrò la cartella e si diresse con passo risoluto verso l’ingresso del palazzo, seguito dall’attendente.

Il caporale di guardia salutò militarmente i due ufficiali. Non aveva necessità di richiedere loro il passe: li conosceva bene. Il loro ufficio si trovava al piano interrato dell’edificio; una sistemazione forse poco salubre, ma decisamente adatta al genere di riservatezza che richiedevano i loro compiti.

Percorsero il corridoio che costeggiava le fondamenta del castello fino ad una porta in legno, piuttosto robusta. Bianchi infilò la chiave nella toppa e cedette il passo al Maggiore che entrò gettando la cartella su un ampio tavolo di quercia. Una seconda scrivania serviva a Bianchi per stilare i rapporti e raccogliere gli appunti. L’ufficio era in mattoni crudi ricoperti da scaffalature ricolme di volumi e documenti. Una comoda poltrona in cuoio era associata alla scrivania del Maggiore e faceva coppia con una identica posta davanti ad un largo camino. Un enorme arazzo in lana cotta era stato disposto come tappeto sul pavimento in pietra dove campeggiava, unico altro arredo, un mappamondo in alabastro che nascondeva al suo interno una piccola riserva di cognac con un paio di bicchieri. Alle spalle dello scrittoio di Bianchi si apriva una porta che dava su un disimpegno. Du Perril l’aveva arredato con una branda militare ed una cassapanca in cui custodiva un paio di ricambi e una seconda uniforme perfettamente stirata.

Il maggiore appoggiò sul tavolo la rivoltella e controllò che la polvere da sparo nella giberna della bandoliera non si fosse bagnata. Poi estrasse da un taschino ciò che considerava il proprio vanto: una penna stilografica in bronzo e corno modificata sul prototipo di Sheller del 1780. L’aveva acquistata a Parigi; terminati gli studi di Diritto all’Università di Torino, aveva frequentato per qualche tempo la Sorbonne, dopo che Napoleone ne modificò gli statuti prendendo ad esempio proprio l’ateneo sabaudo. Intanto Bianchi si occupava di accendere le lampade ad olio.

«Dicevate che la morte della ballerina non fosse un caso isolato? » Domandò Bianchi riprendendo il filo del discorso.

«Proprio così » confermò Du Perril «Ma non nel senso che probabilmente intendi. »

«Avrete il buon cuore di spiegarmi, allora. »

«Vedete amico mio, » esordì il maggiore sprofondando nella poltrona e stirandosi le braccia. «Credo ormai conosciate la mia posizione fortemente scettica in merito a tutto ciò che concerne il mistero e piani affini. »

«Oserei affermare che il vostro scetticismo è risaputo, ma, nonostante questo, continuano a commissionarvi casi che vanno dalle presenze di fantasmi, alle infestazioni di dimore, agli esorcismi … »

«Forse il motivo è proprio questo. » sorrise conciliante il Maggiore.

«Ed è per lo stesso motivo che vi siete scelto un ufficio prossimo a quello che molti considerano l’ingresso alle grotte alchemiche? »

«A volte lo scetticismo va un po’strapazzato se si vuole risalire ad una visione più ampia. »

«Dopo due anni al vostro servizio credo di non avervi ancora compreso del tutto. »

«Non siete l’unico, mon ami, e questo non può che essere un bene. La ballerina, dicevamo.» Du Perril appoggiò i gomiti sul tavolo ed unì la punta delle dita portandole vicino al naso. «Il compito affidatoci prevede che scopriamo e, possibilmente mettiamo fine, alle apparizioni dell’ormai noto fantasma della ballerina che infesta le sale del palazzo Trucchi di Levaldigi »

«Leggo qui tra le vostre note » prese Bianchi inforcando un paio di lenti rotonde dalla montatura in ottone. «Il palazzo è situato al crocevia tra la via di Alfieri e la via dell’Albergo Maurizio della Rosa Rossa, così nomata nel tratto compreso tra Contrada della barra di ferro e Via Dora Grossa. La sua facciata occidentale, presenta un curioso taglio diagonale occupato da un portone di ingresso quanto mai caratteristico.»

«Fermati qua Bernardo. » Du Pellier socchiuse gli occhi mentre si accendeva la pipa di spuma preferita. «Gli appunti proseguono con le deposizioni di quanti dichiarano di aver visto il fantasma, n’est ce pas? »

«Esattamente Maggiore. »

«Occorre allora inserire una piccola integrazione » precisò Du Pellier soffiando un paio di ampie volute di fumo. «Mettete mano alla penna. »

Bianchi si sedette al suo scrittoio avvicinando una lampada, mentre il Maggiore si predisponeva a dettare.

«Orbene il suddetto portone, più che “caratteristico” meriterebbe la nomea di “inquietante”, se non, addirittura “diabolico”. Sembra infatti essere intriso, secondo le credenze popolari, di un’aura malefica se non già diabolica, fin dal momento della sua posa in opera. Gli archivi cittadini assegnano al Conte Giovanni Battista Trucchi di Levaldigi la committenza del palazzo, con relativo portone. Il Conte, già Generale delle finanze presso SAR Carlo Emanuele II, affidò l’opera a certo Pietro Danesi tra il 1673 ed il 1675, mentre si trovava a Parigi.»

«Personalmente preferisco seguire i lavori da vicino » commentò Bianchi sistemandosi meglio le lenti sul naso. «Le maestranze tendono a dilungarsi molto nei cantieri. »

«In effetti fu proprio ciò che accadde. » riprese Du Pellier. «A palazzo ultimato mancava ancora il portone d’ingresso, con grave disappunto del Conte. »

«E come pensò di rimediare? » domandò Bianchi incuriosito.

«Questo non lo troviamo negli archivi, ma nei documenti relativi alla scomparsa di un ebanista che lavorava per Pietro Danesi. »

«Immagino che la guardia cittadina dell’epoca abbia interrogato la manovalanza quindi. »

«Bravo Bernardo! E noi abbiamo una testimonianza quanto mai “strana”. » continuò il Maggiore. «Un certo “nome illeggibile”, addetto al trasporto dei carri di sabbia, afferma di essersi addormentato la notte in cui l’ebanista, pesantemente redarguito dal Danesi il pomeriggio precedente, per il ritardo accumulato, sembra sia arrivato sul cantiere a notte inoltrata. Gli operai vociferavano che la sua vera professione fosse l’alchimia, ed in molti lo avevano soprannominato “lo stregone”. »

«La vicenda si fa interessante … » commentò Bianchi.

«E non è finita. Sembrerebbe che lo stregone non avesse nessuna possibilità di finire in tempo il portone, decidendo quindi di ricorrere alla magia nera, avocando a sé l’aiuto del Diavolo in persona. Purtroppo il Diavolo non si dimostrò così accondiscendente. Il testimone giura di averli sentiti litigare per qualche minuto. Poi, come per incanto iniziarono a formarsi stipiti ed intagli: fiori, frutti, animali, amorini; ma ciò che lo lasciò di sasso furono i lamenti sempre più soffusi dell’alchimista che, poco per volta, sembrava venire risucchiato dallo strano battente in bronzo che si andava formando. Dopo qualche ora, tra fumo e odore di zolfo, il portone era perfettamente montato, lucido come non mai. Il battente recava la faccia del Demonio dalla cui bocca uscivano due serpenti incrociati. »

Il portone del diavolo

«Per la miseria!» sbuffò Bianchi. «Se fosse vero non farebbe che incrementare l’alone già spesso di magia nera che permea la città »

«Senza dubbio. Ma adesso arriva il bello. » sorrise Du Pellier.

«Perché? C’è altro? » il tono del Tenente sembrava preoccupato.

«Eccome. Questa era la parte “carina”. » ora il Maggiore rideva apertamente mentre il Tenente si segnava nel nome del Padre, della Vergine Maria, dei Santi Apostoli e di tutta la schiera di Santi e Beati che l’agiografia poteva mettere a disposizione.

«Il palazzo, prima che il Conte lo destinasse a dimora nobiliare, ospitava una fabbrica. Questo l’ho ritrovato negli archivi. »

«Questo mi sembra abbastanza normale. » replicò il Tenente leggermente piccato. « il quartiere del decumano venne quasi interamente rifatto a partire dalla contrada della Concordia e non era insolito trovare officine ed opifici. »

«Vero. Ma in questo caso la fabbrica produceva Tarocchi. »

«Madonna mia santissima. » Bianchi sembrava aver esaurito ogni scorta di scaramanzia.

«Ed ora il gran finale, mesdames et monsieurs. » Du Perril si alzò dalla scrivania sbottonandosi l’uniforme con gesto teatrale e traendo un paio di fogli dal giustacuore. «Secondo le mappe dell’epoca la fabbrica sorgeva al civico 15! »

«E cosa ci sarebbe di così sconvolgente? » Bianchi sembrava aver allentato leggermente la tensione.

«Davvero non lo sai? » Chiese stupito il Maggiore.

«Cosa dovrei sapere? »

«Ad esempio che la carta numero 15 dei tarocchi raffigura un volto identico a quello del portone: Satana, Mefistofele, Lucifero, Berlichin, ‘l Diao. Detto anche “Quindes”. »

Bianchi crollò dalla sedia sotto lo sguardo stupito del Maggiore che decise di infierire e portarlo a conoscenza di tutto ciò che aveva scoperto.

«La cosa più interessante è che all’epoca della costruzione della fabbrica, alcune leggende popolari affermavano che il Diavolo fosse particolarmente contrariato sulla scelta del luogo e non mancasse occasione di dimostrare le proprie rimostranze. »

«E perché? » volle sapere Bianchi, ormai allo stremo delle forze.

«Perché naturalmente la fabbrica non venne edificata in un luogo qualunque, bensì in area consacrata, esattamente sul terreno dove sorgeva una confraternita di Agostiniani. »

«Ecco. Les jeux sont faits. » Il Tenente posò gli occhiali sullo scrittoio e si diresse al mappamondo per versarsi una generosa dose di cognac. Decise che un solo bicchiere non poteva bastare e si versò il secondo asciugandosi la fronte con un fazzoletto. «Ma questo non spiega il fantasma della ballerina. »

«Per spiegarcelo dobbiamo ricorrere all’aiuto di due istituzioni fondamentali introdotte nel regno il secolo scorso. Oltre naturalmente ai rapporti di indagine stilati dai nostri colleghi per un fatto avvenuto 30 anni fa. » Du Perril si diresse ad uno degli scaffali iniziando a scartabellare tra decine di documenti.

«Nel 1720 Vittorio Amedeo II inaugurò una delle istituzioni più moderne dell’epoca: il catasto. Cinquant’anni dopo, il 19 settembre 1772, Carlo Emanuele III introdusse il servizio postale. » Il Maggiore estrasse un faldone recante sul dorso l’anno 1790. Lo appoggiò sulla scrivania ed iniziò a scioglierne i lacci. «Ecco qua. “affaire Cochet” » Du Perril estrasse dal faldone una cartella in cartone, porgendo al Tenete alcuni fogli del contenuto.

Bianchi osservò le carte ingiallite. All’epoca dei fatti il palazzo era di proprietà di Marianna Carolina di Savoia, nota per le sue feste piuttosto durature e disinibite. In occasione del carnevale di quell’anno, la nobildonna indisse dei festeggiamenti che sarebbero durati giorni, se non fosse che, al terzo giorno, venne pugnalata a morte la ballerina Emma Cochet.

«Secondo il rapporto » Du Perril leggeva ad alta voce una pagina del dossier. «La fanciulla fu trafitta da diverse pugnalate, inferte in mezzo agli altri ospiti, senza che nessuno abbia avuto modo di notare l’assassino. Al di là del normale turbamento che costernò la platea presente, Sua eccellenza Madonna Marianna Carolina avrebbe preferito continuare i festeggiamenti, per quanto il generale clima di allegria fosse ormai irrimediabilmente contagiato. Ciò che decretò la fine della festa fu, in realtà, un caratteristico odore di zolfo che si levò dalla sala principale, concomitante ad un repentino abbassamento della temperatura che alcuni testimoni non esitarono a definire “glaciale”. »

«Un momento. » lo interruppe il Tenente. «Si tratta degli stessi fenomeni che accaddero quando l’alchimista venne imprigionato nel portone. »

«Exactement, mon lieutenent. » esclamò trionfante il Maggiore. « E per quale motivo sarebbe stata colpita proprio la ballerina?»

«Non saprei » replicò Bianchi.

«Questo è ciò che i colleghi le trovarono addosso una volta trasportata all’obitorio. » Du Perril sventolava due carte che rappresentavano la soluzione al mistero. «un suo zio, padre agostiniano, sembra avesse scritto alla nipote ammonendola a non partecipare a quella festa, della quale, evidentemente era a conoscenza. Il timbro postale risale a quindici giorni prima dell’omicidio. Continua spiegando che quel palazzo appartiene al Diavolo e che lo stesso Satana, infuriato con gli Agostiniani, non mancherà di compiere un atto eclatante che colpisca la congrega. Gli Agostiniani non hanno infatti mai smesso di pregare da quando il loro terreno fu destinato alla fabbrica di tarocchi. Si impossessò del numero civico e dell’intero palazzo sigillandolo con il famoso portone e l’anima dell’alchimista. Allega poi questo secondo documento, tratto dal catasto, dove dimostra la veridicità del suo appello. »

«La ballerina non ha voluto tenerne conto e si è presentata alla festa, a quanto pare. » sentenziò Bianchi.

«E Berlicche non mancò l’occasione di colpire in modo eclatante una parente di un appartenente all’odiato ordine. » continuò Du Perril. «La spiegazione della scelta si trovava nella lettera dello zio, addosso alla ragazza. »

«E fu così che ancora oggi, a trent’anni dal delitto, il fantasma della ballerina si aggira per le sale del palazzo.» concluse Bianchi.

«Purtroppo possiamo dare solo una spiegazione che scavalca la scienza, ma, al momento, è tutto ciò che sappiamo.» spiegò du Perril.

Il Maggiore raccolse i documenti in un nuovo dossier. Sul fronte scrisse “Il portone del Diavolo”. Lo richiuse e lo sistemò nella sua cartella di cuoio. Poi sorrise all’indirizzo di Bianchi, si sistemò l’uniforme ed approfittò per darsi una veloce spazzolata ai capelli, prima di indossare il chepì.

«Vogliamo andare? Credo che a sua Eccellenza interessino i risultati cui siamo arrivati. »

Il tragitto verso palazzo Levaldigi fu breve, Bianchi parcheggiò la vettura su via di Alfieri e si predispose all’attesa del Maggiore che, imbracciata la cartella attraversava il famoso portone.

Erano già passate quasi due ore e il Tenente decise di non aspettare oltre. Scese di cassetta e si avviò con fare marziale verso l’ingresso del palazzo. Un inserviente in livrea lo accolse con un mezzo inchino come da etichetta.

«Il Signore desidera? »

«Sono il Tenente Bernardo Bianchi. Mi chiedevo se il Maggiore Melchiorre du Perril ha necessità che lo attenda o desideri fermarsi a cena presso Sua Eccellenza. »

«Il Maggiore Du Perril dite? » Chiese il domestico come non avesse idea di chi si stesse parlando.

«Si. È entrato da ormai due ore e … » spiegò Bianchi con una punta di preoccupazione.

«Mi spiace contraddirla, Signore, » lo interruppe il servitore «ma siete il primo militare a presentarsi a palazzo questo pomeriggio. »

«Ne siete certo? » ora Bianchi era decisamente in preda all’ansia.

«Come lo sono dell’improvvisa puzza di zolfo che arriva dalle cantine e della temperatura che oserei definire più adatta al mese di dicembre. »

————–

Melchiorre Du Perril sparì improvvisamente nel 1817, dopo essere entrato a palazzo Levaldigi con il compito, pare, di consegnare documenti segretissimi.

Vent’anni dopo, durante alcuni lavori di restauro, gli operai addetti trovarono il cadavere di un ufficiale murato in piedi appena dietro il portone del Diavolo.

Alberto Busca