Nelle librerie italiane è arrivato il novo libro di Jonathan Franzen: Purity, edito da Einaudi e tradotto da Silvia Pareschi. Franzen è uno scrittore di successo, un grande e bravissimo scrittore, quello che la società americana definisce un GRA ossia un Great American Novelist. Tradurlo, restituirlo nella lingua italiana, non è propriamente un’impresa facile. Per questo era interessante provare a sapere qualcosa di più da chi ha svolto mirabilmente questo compito. Così le abbiamo rivolto qualche domanda sul suo mestiere.
Silvia Pareschi in questi anni ha tradotto oltre a Franzen, i libri di Zadie Smith, Denis Johnson, David Means, Nathan Englander e molti altri. A maggio uscirà il suo primo libro dal titolo I jeans di Bruce Springsteen – e altri sogni americani.

Lavorare con un autore importante come Franzen accresce o diminuisce la cosiddetta “invisibilità” del traduttore?
La diminuisce, senza dubbio. Non dovrebbe essere così, nel senso che l’attenzione al lavoro dei traduttori dovrebbe essere un po’ più costante, anziché risvegliarsi soprattutto quando si traducono autori famosi. Invece così è, e non è tanto sorprendente. E comunque non è detto che il traduttore sia sempre contento di uscire dall’invisibilità. A me piace molto confrontarmi con i lettori, e naturalmente desidero che i recensori si ricordino che il libro l’ho tradotto io, ma quando un perfetto sconosciuto mi scrive su Twitter chiedendomi perché ho usato la parola “mutandine” nella mia ultima traduzione, be’, mi capita di pensare che l’invisibilità non sia non sia poi una condizione così indesiderabile.
Vivere da tempo in un altro paese, conduce a tradurre continuamente un mondo, un modo di vivere, di agire e al fine di pensare oppure no ?
Lavorando come freelance ho la grande fortuna di poter vivere per metà in Italia e per metà negli Stati Uniti insieme a mio marito, lo scrittore e artista Jonathon Keats. In questo modo è come se applicassi nel concreto la metafora del traduttore come “ponte” fra due lingue e due culture. L’immersione nel mondo che si traduce è enormemente utile per svolgere bene questo mestiere, ma bisogna stare attenti a non strafare: il traduttore deve sempre cercare di rimanere a metà, a cavallo dei due mondi, proprio per riuscire a fare da tramite, a passare le voci da un mondo all’altro. L’italiano è l’obiettivo finale, è nell’italiano che va cercata la perfezione. L’immersione nell’altra cultura non può essere totale, bisogna osservarla sempre con il cervello sintonizzato sulla propria lingua, se non si vuole che quest’ultima sbiadisca e si offuschi.
La lingua di un romanzo possiede ancora, secondo lei, la grande energia data dal suo potenziale temporale, cioè dal tempo che ha davanti a sé?
Certo. Il romanzo continua a vivere a lungo, può diventare un classico e continuare a essere letto per sempre, cosa che non accade con le sue traduzioni, che invecchiano e vanno rinnovate.
Nel suo mestiere ci si sente più custodi e creatori della cultura, o un suo strumento, per quanto prezioso esso sia?
Uno strumento, sicuramente, anche se spesso si finisce per comportarsi da custodi. I traduttori sono rigorosi puristi della lingua, a volte più degli scrittori, che possono prendersi più libertà e usare la lingua in modo più sperimentale. Noi invece, persino quando traduciamo scrittori sperimentali, dobbiamo cercare di mediare tra la fedeltà all’originale e le esigenze di “leggibilità”, tra la sperimentazione e la costante ricerca di una lingua ineccepibile. Per questo, quando traduco uno scrittore che forza i limiti della propria lingua, posso riuscire a ricreare la sua voce solo se so gestire, manipolare e plasmare la mia lingua con grande disinvoltura e sicurezza.
Il rapporto umano creatosi con Franzen come si riverbera e se lo fa, nella traduzione dei suoi libri? Si è rivelato utile conoscerlo?
Io cerco sempre, quando posso, di incontrare l’autore o l’autrice che sto traducendo. C’è un aspetto istintivo del mio lavoro che beneficia di un contatto diretto con la persona a cui sto dando voce nella mia lingua. Ed è una sensazione strana quella che provo trovandomi di fronte a questa persona, con la quale ho trascorso mesi in un dialogo mentale e che ora finalmente acquista anche un corpo e una voce fisica. Tuttavia con Franzen, ancora più del rapporto umano – e della sintonia con le sue idee – ciò che conta di più è la grande dimestichezza che ho con il suo stile, visto che ho tradotto otto suoi libri su nove. Quando si è tradotto così tanto di un autore, quando praticamente lo si è seguito in tutta la sua carriera, sedersi davanti a un suo nuovo libro è come ritrovare un vecchio amico. Il discorso riprende da dove lo si è lasciato, come se ci si fosse visti il giorno prima.

Silvia Pareschi e Jonathan Franzen

 

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