C’è una frase che rimane scolpita nella memoria di tutti i tifosi della Juventus ma anche dei suoi avversari “il mio cuore non batte per la Juve, il mio cuore è la Juve”. Ha pronunciarla tanti anni e fa fu Giampiero Boniperti morto oggi all’età di quasi 93 anni che avrebbe compiuto a luglio. Il suo cuore ha ceduto al peso degli anni confortato dalla sua numerosa famiglia. Boniperti è stato la Juventus, forse più di ogni altro grande suo campione. L’unico a poter contendere il ruolo di juventino a vita eccezion fatta per la famiglia Agnelli e in tempi recenti Alessandro Del Piero. Boniperti che i suoi avversari, spesso invidiosi e acidi, chiamavamo Marisa, arrivava dalla provincia novarese, come gli avi di uno dei suoi campioni più amati Michel Platini.

La sua stagione bianconera è precoce a meno di vent’anni esordisce nella Juventus contro il Grande Torino, contrastando in campo Valentino Mazzola, da Boniperti considerato il più grande di tutti i tempi. Da quel momento e per 459 partite e 179 reti dal 1946 al 1961 è stato il giocatore più rappresentativo più intimamente legato alla Juventus del dopoguerra che contrastò il grande Milan, l’Inter, il Bologna. Poi un giorno proprio in quella infausta partita con i ragazzini dell’Inter nel maggio 1961, dopo le epiche gare con il funambolico Charles e l’istrionico Sivori, decise di dire stop. E mai più tornò in campo. Iniziò nel decennio di vacche magre per la Vecchia Signora e il dominio milanese in Italia e in Europa, ha studiare da dirigente con i vecchi saggi della Real casa sabauda e la famiglia Agnelli che gli affidò la guida della società dieci anni dopo, era il 1971.

L’ultima bandiera del calcio. Giampiero Boniperti il cuore bianconero

L’Avvocato apprezzava il ragionieri di Barengo, lo stuzzicava, ma serbava per lui una grande stima, un rispetto, per il grande giocatore che fu ma anche il dirigente che stava per diventare, uno dei più grandi del nostro calcio. Costruì una squadra unica quella di Anastasi, Causio, Zoff, Bettega, Scirea, Gentile, Tardelli, Morini, Benetti, Furino e tanti altri che avrebbe vinto tutto. Iniziò dagli scudetti per poi vincere nel decennio successivo tutte le coppe grazie a grandi tecnici da Parola a Trapattoni. Aveva fiuto, era molto austero e non alzava gli ingaggi, apriva gli scrigni della storia ai ragazzotti che salivano in Galleria San Federico e poi in Piazza Crimea, diceva che alla Juve “l’unica cosa che conta è vincere”. Di scudetti ha fatto incetta, le coppe le ha vinte tutte, ma ha perso una serie infinite di finali.

La Coppa dei Campioni, come per tutta la Juve, era la sua ossessione. Se si parò di stile Juve lo si deve a lui, a Zoff e a Scirea, tre uomini di altri tempi, silenziosi e laborioso. Tanti furono i successi e pochi ma profondi e intensi i dolori, la notte dell’Heysel con l’immagine del piccolo ragazzino sardo Casula morto all’obitorio.

Una ferita che avrebbe accompagnato il presidentissimo per tutta la vita e poi la scomparsa tragica di Gaetano Scirea, l’angelo della Juventus, il mitico libero. Anche li Boniperti barcollò, l’ironia smorzata, i silenzi e il dolore come se fosse stata la perdita di un figlio. Aveva mille scaramanzie, uscita al 45’ dal Comunale e seguiva la partita alla radio con il suo autista. Soffriva troppo. Era felice come un bambino la notte del 22 maggio 1996 all’Olimpico per la vittoria della Juventus nella maledetta coppa e orgoglioso dei campioni del mondo del 1982 e del 2006. Andava con l’Avvocata a seguire i suoi gioielli Platini e Boniek, Paolo Rossi e tutti gli altri. Aveva i suoi fidi collaboratori il dottor Giuliano, Secco il segretario, Morini prima giocatore e poi general manager, dopo Allodi, poi il medico sociale La Neve.

Una Juve forte, potente ma non arrogante. Litigate furioso con Viola patron della Roma, i Pontello e il regista Zeffirelli a Firenze, molto rispetto con Moratti, Fraizzoli e Pellegrini dell’Inter e con i tanti presidenti rossoneri prima del Cavaliere di Arcore. Il derby era la partita dove segnò di più da giocatore ma che non voleva mai giocare da presidente.

Lui aveva amato il Grande Torino, e tutto il mondo granata, magari lo sbeffeggiava ma gli portava un grande rispetto. Fu l’avvento di Berlusconi ha chiudere la stagione epica di Giampiero Boniperti, il cambio di epoca, la svolta umbertiana che comprendeva un altro suo pupillo Roberto Bettega. C’è una foto nell’anno d’oro dell’accoppiata scudetto Coppa Uefa, l’abbraccio tra Boni e Bobby Gol a Marassi dopo la vittoria sulla Sampdoria, Juventus 51 Torino 50.

Erano gli anni bui del terrorismo, delle lotte sindacali e nell’università, le avvisaglie di un crollo quello della Fiat, la proprietaria della Juventus, che sarebbe durata quattro decenni. Il calcio era l’unica gioia, momento di svago, per non pensare al male, alla violenza, ai morti ammazzati. Boniperti era il capo su mandato degli Agnelli. Poi la chiusura, la politica come parlamentare europeo proprio con Forza Italia, con il suo ex acerrimo nemico Berlusconi che intanto trionfava in Europa dove la Juventus era sempre l’eterna seconda.

E la progressiva uscita di scena. Il suo calcio non c’era più. Soffriva per Ronaldo e compagni, apprezzava Baggio e Conte che fu lui ad acquistare come Alex Del Piero che lo avrebbe superato in presenze e gol. Bellissima la scena all’inaugurazione dello Stadium con Boniperti e Del Piero insieme. Forse una delle ultime partite allo Stadio fu quel Novara_Juventus del 2012 sulle tribune della provincia con accanto Le Roi Michel. Poi il cuore bianconero ha retto ancora molto, affidato e accudito da figli, nipoti, pronipoti. Se la Juventus ha ancora un’anima dovrebbe intitolargli lo Stadium per il cuore è uno solo e quello di Giampiero era bianconero.

Luca Rolandi