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“Ich bin ein Berliner” è la storica frase pronunciata il 26 giugno 1963 da John Fitzgerald Kennedy, presidente degli Stati Uniti d’America, durante il discorso tenuto a Berlino ovest, mentre era in visita ufficiale alla città, da due anni divisa del muro. Questa frase è diventata lo slogan di “Torino incontra Berlino” un progetto bello e promettente la cui pubblicità tappezza la nostra città e non ci lascia indifferenti: si tratta di un programma di scambi culturali che si estende a tutto il 2015. È stato avviato con un emozionante concerto al Teatro Regio di Torino lo scorso 9 novembre, che essendo nel 2014 contava 25 anni dalla caduta del muro di Berlino, avvenuta appunto la notte del 9 novembre 1989.
Speriamo che il sito di questo programma abbia presto una versione anche in tedesco, per dare almeno una parvenza di reciprocità.
Infatti, al momento, purtroppo Berlino non incontra Torino. Molte circostanze remano contro, incluso il collegamento aero diretto di Meridiana, che ha resistito forse nemmeno un mese, super economico ma scarsamente organizzato e comunicato ancora meno.
Ma se si sta bene attenti, qualche traccia di Torino e Piemonte a Berlino si trova sempre. Quest’anno, per esempio, ho trovato due interessanti sorprese nel programma della 65° Berlinale, il festival del cinema che omaggia i vincitori con i famosi orsi. È dal 2006 che il festival dedica una sezione alla gastronomia. Da allora i film di questa sezione hanno ottenuto un sempre crescente successo di critica e di pubblico.
Ebbene, quest’anno ospite d’onore della cerimonia inaugurale è stato Carlo Petrini, che con Alice Waters in questi anni ha determinato la fisionomia della sezione gastronomica del festival. La Waters e Petrini sono stati insigniti del prestigioso riconoscimento della “Berlinale Camera”.
Ma dalla Berlinale 2015 ho avuto anche un’altra sorpresa, forse ancora più gradita perché del tutto inattesa. A Torino pochi conoscono il Museo della Montagna. Eppure custodisce alcune tra le più interessanti e testimonianze al mondo sull’argomento, oltre a avere una raccolta di documenti storici preziosissimi. Una di queste è la cineteca del piemontese Alberto Maria De Agostini, che fu non solo il fratello del fondatore dell’omonimo Istituto Geografico di Novara, ma anche missionario salesiano, esploratore e uno dei pionieri della documentaristica cinematografica. I suoi film girati in Patagonia dal 1912 fin verso la fine degli anni ‘40 sono praticamente le uniche immagini degli indigeni fueghini, prima che venissero trucidati dai coloni o sterminati dalle malattie.

È anche sulle preziose immagini custodite nel il Museo della Montagna di Torino che si basa il documentario “El Botòn de cànar” ( Il bottone di madreperla) di Patricio Guzmàn. Questo straordinario film, ricco di poesia, di immagini spettacolari, ma anche di un messaggio fortissimo, è stato presentato in concorso e si è aggiudicato un orso d’argento.
Racconta infatti il tragico destino di migliaia di “desaparecidos” negli ultimi centocinquant’anni di storia del Cile. Persone per la cui scomparsa nessuno è stato condannato. I primi a scomparire furono gli indigeni, dei quali rimangono oggi solo un ventina di superstiti. Un secolo e mezzo dopo sono scomparsi gli alleati politici di Allende, vittime di un golpe di destra supportato dagli Stati Uniti. Crimini brutali avvenuti negli anni Ottanta ma sui quali sono una diecina di anni fa si è scoperta l’atroce verità.
Ma il film non ha il tono della vendetta, bensì quello, ben più sottilmente acuto e profondamente intelligente di un appello a avvicinarsi con più attenzione e rispetto alla natura, in particolare all’acqua nella quale il Paese è praticamente immerso e che un tempo ne costituiva elemento vitale.
Un bel film, che scuote e affascina e del quale una piccola ma significativa parte contiene una preziosa testimonianza che parla torinese.
Paola Assom

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