ALLA SCOPERTA DELLA TERRA DI MEZZO – Il viaggio dell’Istituto Sociale di Torino in Cina.
La terza giornata del nostro viaggio cinese è iniziata con la visita di “Palazzo d’Estate”, uno dei giardini meglio conservati al mondo e il maggiore per importanza e grandezza nella Cina moderna. L’Unesco nel 1998 ha aggiunto questo sito alla Lista del Patrimonio Mondiale e  a riguardo ha detto: “…un capolavoro cinese di progettazione di giardini. Il paesaggio naturale delle colline e le acque a cielo aperto si combinano con caratteristiche artificiali come padiglioni, sale, palazzi, templi e ponti andando a formare un armonioso insieme di eccezionale valore estetico”. Dopo esserci immersi nella naturale spiritualità cinese, ci siamo recati alla tomba di Matteo Ricci. A Fine giornata abbiamo incontrato l’ambasciatore italiano in Cina per una discussione all’insegna dell’internazionalità.
Il Palazzo d’Estate di Pechino, l’espressività dell’ ”armonia educata”
Una grandiosa costruzione umana che celebra e si lega indissolubilmente all’armonia della natura.
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Il palazzo d’Estate si trova a nord-ovest, a soli 15km dal centro di Pechino. È stato per lungo tempo adibito a reggia degli imperatori della dinastia Qing, infatti l’imperatore scelse questa zona per il suo clima favorevole; in estate, a causa della forte umidità e del forte caldo della città, preferì questi ampi giardini, che i cinesi chiamano Yihe Yuan (Giardino dell’armonia Educata). Furono dunque progettati per raggiungere l’armonia con la natura; questo appare evidente al turista dai lunghi vialetti che corrono accanto al lago, ombreggiati da alberi o da tettoie variopinte. Di grande impatto per i soffitti è sicuramente “Il lungo corridoio” che conduce fino alla pagoda del palazzo, sulla quale è possibile salire.
Da lì si può godere di un panorama mozzafiato: ponti, isole, barche, salici e  fiori di loto. Il Lago Kunming, che occupa più della metà dell’intero parco, è  circondato da alberi di loto ed è attraversato da battelli a forma di drago che portano i turisti, non solo europei, ma anche moltissimi pechinesi, da una sponda all’altra. Il paesaggio verdeggiante si estende libero,il sole si specchia nell’acqua tranquilla. Ho avuto la netta sensazione di essere catapultata in un’altra dimensione,in un altro mondo di eterna tranquillità completamente diverso dalla vita frenetica della città.
Fabiana Russo

Matteo Ricci: l’uomo moderno ante litteram.
Prima di contrarre amicizia bisogna osservare; dopo averla contratta bisogna fidarsi”.
Durante il nostro terzo giorno passato nella città di Pechino ci siamo recati a visitare la tomba del Padre Gesuita Matteo Ricci e seppur ciò possa sembrare strano, questa è situata nel campus della scuola del Partito Comunista di Pechino. La visita alla  tomba e a quelle di altri 63 gesuiti, situate nello stesso luogo, è stata molto importante per noi poiché tutti proveniamo da collegi gesuiti. (E’ la classica tomba di un mandarino e si differenzia dalle altre molto più essenziali) La tomba è costruita con mattoni quadrati e circondata da un muro e a differenza dalle altre tombe, vi si accede da un cancello in ferro battuto. Una cosa che mi ha molto colpita è stata la vista di una signora molto anziana che, nel giorno in cui si celebrano i defunti a noi cari, invece di visitare le tombe dei suoi cari, si trovava in questo cimitero di tombe di gesuiti e le bagnava con dell’acqua santa dicendo delle preghiere in cinese e ciò mi ha fatto capire quanto per i cinesi siano stati importanti i gesuiti e la religione.
Matteo Ricci è una delle più importanti figure religiose per i cinesi poiché egli si fece cinese con i cinesi, e studiando la loro lingua e la loro cultura attuò un processo di “inculturazione” della fede permettendo ai cinesi confuciani di comprendere la nostra religione. Inoltre egli fu di grande aiuto anche per quanto riguarda il progresso scientifico in Cina poiché tradusse diversi testi scientifici occidentali in cinese.
Arianna Semila
Aria di casa a Pechino: incontro con l’ambasciatore.

Sentirsi a casa, ecco cosa significa entrare nell’ambasciata italiano a Pechino. Una casa bianca, circondata da un bel giardino, una casa, che se non fosse per il soldato  sull’uscio nessuno faticherebbe a scambiare per una villa in  un quartiere europeo. Questa casa è l’ambasciata italiana a Pechino, un fazzoletto d’Italia in una nazione grande quanto un continente che conta un miliardo e mezzo di abitanti. Un ambiente caldo e familiare ci si presenta appena entrati, noi studenti siamo presto condotti in un aula magna dove il cappellano dell’ambasciata, massima  figura ecclesiastica in Cina, spiega con fare simpaticamente pragmatico vizi e virtù del popolo cinese. Un popolo a prima vista lontano da noi occidentali quanto a etica e costumi, anche se capace di grande generosità e accoglienza. Un popolo in sincera evoluzione, un popolo immerso in un universo di cambiamenti, che chiede a gran voce dei punti fermi. Padre  racconta quanto la fede abbia un effetto positivo sulla popolazione, ma anche quanto essa fatichi ad attecchire in questo ambiente ove la regola aurea è, sin dai tempi di Confucio, “ubi maior , minor cessat”. Dopo un rinfresco piacevolmente italiano, l’ambasciatore Ettore Francesco Sequi svincolandosi dai suoi tanti impegni, fa il suo ingresso nella sala.  Egli, “pechinese” da solo cento giorni, risponde alle nostre domande, senza però dare giudizi “affrettati” sul Paese che lo ospita. Una scelta intelligente e forse vivamente incoraggiata da chi non avrebbe gradito una non richiesta pubblicità positiva o negativa che fosse. Tuttavia il dott. Sequi forte di un’esperienza straordinaria maturata da anni di lavoro diplomatico in scenari ostici come l’Afghanistan, ci dona la spinta per andare oltre il pregiudizio e la diffidenza, che arriva come un sibilo disturbatore a rovinare l’incontro tra culture diverse ed estranee alla nostra quotidianità.
Senz’altro la visita in ambasciata è stata un’esperienza tanto inconsueta quanto magnifica, l’essere ricevuti come illustri ospiti dall’ambasciatore in persona è un privilegio raro, un piccolo tesoro “italo-cinese” che porteremo per sempre nel nostro personale scrigno.
Daniele Amedeo

Matteo Ricci un gesuita a Pechino.
Non può non lasciare sorpresi, scoprire nel giardino a fianco della Scuola Centrale del Partito, a Pechino, al numero 6 di via Chegongzhuang la tomba di un gesuita. È la tomba di padre Matteo Ricci S.I., sulla lapide si legge questa iscrizione: A colui che, venuto dal Grande Occidente, ha guadagnato fama di uomo giusto e ha dato alla luce libri di valore.
Chi era questo uomo giusto che la rivista Life ha posto fra le 100 più importanti personalità del secondo millennio? Chi era questo intellettuale che riuscì a parlare di Cristo in Cina?

Nato il 6 ottobre 1552 a Macerata, entrato nella Compagnia di Gesù nel 1571, Il 29 marzo 1578 si imbarca per l’Asia e arriva a Goa, avamposto sulla costa del Malabar, a Cochin, completati gli studi teologico, è ordinato sacerdote il 26 luglio 1580. Nel 1582 arriva a Macao, nella Cina meridionale, per dare un aiuto al confratello Michele Ruggeri. Qui si dedica allo studio della lingua e si immerge nella compressione della cultura cinese; tra le difficoltà che Matteo incontra c’è quella del vocabolario della vita spirituale: la parola Dio non ha un corrispondente nella lingua cinese. Al suo posto sono utilizzati termini come tian, che significa cielo o la parola Shangdi, il Signore dell’alto; Matteo utilizzerà il vocabolo Tianzhu che significa il Padrone del cielo. Col suo compagno Ruggeri, su suggerimento di un comandante delle truppe della provincia, si radono il capo e si vestono con l’abito scuro dei bonzi cinesi.  Nel 1583 è, con Ruggeri, a Canton dove sono ricevuti dal governatore Wang Pan; si stabiliscono a Zhaoqing e qui costruiscono la prima chiesa cattolica che chiama: il tempio del fiore dei santi. Matteo dimostra da subito di essere un religioso dalla mentalità aperta: affronta da prima il problema dell’iconografia poi il problema del dove e del a chi predicare, e ha l’idea che è agli intellettuali – filosofi, letterati, sapienti – che deve rivolgersi. Traduce in mandarino il Credo, i Dieci Comandamenti e pubblica il primo Catechismo. Nel 1584 presenta a Wang Pan la prima carta geografica di tutto il mondo con inscrizione in lingua cinese e con le sue lezioni di matematica e scienze comincia a sedurre la Cina. Comincerà ad essere conosciuto col soprannome di Xi Tai, il saggio d’Occidente, mentre il suo nome e cognome, Matteo Ricci, cinesizzato diventa Li Madou.
Nel 1589 lo troviamo a Shaozhou, nel cuore della Cina, dove smessi gli abiti del bonzo, si fa crescere una lunga barba e indossa l’abito di porpora dei mandarini, è un atto simbolico, in Cina il rosso è il colore della grandezza e della bellezza.  Fondamentale sarà l’incontro con Qu Taisu, il giovane figlio di un alto magistrato che presiede il tribunale di Nanchino, comincia tra il gesuita italiano e il giovane cinese una serie di lunge conversazioni, passeranno altri dieci anni prima che Qu Taisu decida di convertirsi al cattolicesimo e di prendere il nome di Ignazio. Nel frattempo però Matteo capisce che l’Impero di Mezzo è un paese senza Dio, nel quale però sono presenti grandi saggezze e ne evidenzia tre: la prima è quella di Confucio, la seconda è quella del Sakyamuni, la terza è quella del taoismo.
Matteo scopre che se vuole portare Cristo ai Cinesi deve diventare cinese fra i cinesi, in particolare deve passare attraverso Confucio, deve adattarsi. Nel 1595 scrive, in cinese, un breve trattato intitolato Dell’amicizia, non dobbiamo pensare al celebre trattato di Cicerone ma al fatto che la ricerca e la pratica dell’amicizia sono fondamentali per Confucio, questo piccolo testo lo introdurrà nel mondo dei filosofi, dei moralisti, dei saggi, sarà molto più utile delle prediche più eloquenti. Matteo Ricci aveva capito che «più si fa in Cina con i libri che con le parole».
Dopo un primo tentativo, nel 1598, infruttuoso, nel 1601, riuscì a trasferirsi a Beijing, Pechino, dove si presenterà alla Corte Imperiale di Wanli, diventa ben presto protetto dal sovrano ed è proclamato «grande letterato»» tra i grandi letterato della capitale. Matteo Ricci sorprenderà i pechinesi con tre opere: la prima fu il disegno di una carta del mondo, come afferma Paul Dreyfusessa consente ai cinesi di: «scoprire che il loro paese non è al centro del mondo, perché la terra è rotonda; che esiste una pluralità di continenti, e una pluralità ancora più grande di paesi. Non è solo la cartografia a fare il suo ingresso in Cina; è la rivoluzione copernicana». La seconda è la traduzione degli Elementi di Euclide; la terza è la scrittura della sua opera Il vero significato della dottrina del Signore del Cielo, in essa sviluppa l’idea di un Dio unico, personale e creatore e grazie ad essa avrà inizio un dialogo filosofico e religioso che continua ancora oggi.
Una altro campo nel quale stupirà i cinesi sarà la mnemotecnica che spiegherà con il saggio Il palazzo della memoria
È innegabile che con Matteo Ricci si apre un nuovo modo di concepire la missione, nella quale assume un posto privilegiato l’efficacia apologetica della scienza, come afferma Jonathan Spence: «L’obiettivo di Ricci era quello di coinvolgere i cinesi nelle sue attività scientifiche perché diventassero più ricettivi nei confronti della fede cristiana … Si può dire con certezza che le sue speranze di portare importanti letterati cinesi alla fede cristiana servendosi di discussioni scientifiche di alto livello, si mostrarono fondate». L’ostacolo maggiore che incontrò Ricci nella sua avventura missionaria fu il confronto con l’ordinamento politico: oggi come allora la religione è affare di Stato, nessun culto, nessuna dottrina, nessuna azione può essere autorizzata senza il beneplacito dell’autorità statale. La sua febbrile attività fu interrotta il 3 maggio 1610, quando la febbre alta lo costrinse al letto; l’11 maggio raggiungeva il suo Signore, aveva cinquantotto anni.
Antonello Famà

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