Torno spesso a Berlino, per vivere ogni volta il racconto di una nuova storia. Una storia fatta magari di piccole cose, come la gioia di ritrovare amici che non vedevo da tempo e fare insieme la colazione berlinese, chiacchierando senza fretta in un locale di Kreuzberg o di Prenzlauer Berg, rimasti hippy e fumosi come negli anni Settanta, dove si spendono pochi euro a testa e si mangia come a un banchetto di nozze.
Berlino è una grande città, anzi grandiosa. Ma come ogni aristocratica di grande levatura e di antico lignaggio, non ostenta né lusso né ricchezza. Anzi, se qualcosa ostenta, è proprio la sua semplicità quasi naive che si accompagna alla potenza e maestà teutonica che promana dai lunghissimi, immensi viali, da edifici imponenti; sia quelli (pochi in percentuale, ma pure lo stesso molti in assoluto) sopravvissuti alla devastazione bellica, sia quelli sorti dopo, nella città divisa e poi in quella riunificata.
In quei primi anni Novanta, quando la conobbi, Berlino incarnava il mito di una città eroica, che aveva saputo resistere e continuare a vivere, sebbene per 28 anni un lungo e ben sorvegliato muro avesse diviso strade, case e famiglie. Un muro che circondava la parte occidentale della città come una fortezza è circondata dal fossato o un’isola dal mare. Un muro che aveva inchiodato l’economia cittadina, handicap al quale la città aveva risposto con provvedimenti straordinari che avevano favorito la sviluppo della sua già notevole propensione all’arte, alla cultura e soprattutto alla musica.
Per la musica Berlino fu una incredibile fucina di avanguardie. Fin dagli anni Settanta il krautrock produsse forme musicali nuove: rock progressivo, musica elettronica, rock apocalittico, techno con i Kraftwerk e tanto altro. È da lì che iniziarono i NEU!, scritti così, con il medesimo punto esclamativo che vollero poi anche i primi Ultravox!. Qualcuno se li ricorda, questi Ultravox! e la loro ispirazione teutonica e berlinese. Se li ricorda il direttore di questa testata che, ritornando con nostalgia a quegli anni in cui già ci conoscevamo – la nostra personale preistoria – mi fa notare quanto eravamo ingenui e sognatori noi, qui a Torino, che il coraggio di andare a Berlino l’abbiamo avuto, sì, ma ormai quell’ondata di furore artistico e di rabbia metafisica si erano diluite e addomesticate ed erano nel frattempo diventate attrazione per turisti.
Così come era ed è meta di pellegrinaggi inconsolabili la vecchia casa in Hauptstrasse 155, dove era vissuto per tre anni, a metà dei Settanta, il mitico David Bowie con Iggy Pop. Bowie a Berlino è un mito, basti pensare alla sua “Berlin Trilogy”, o al il cameo del suo indimenticabile concerto inserito nel racconto e nel film “Christiane F., noi ragazzi dello Zoo di Berlino.
Oggi sono ricordi, appunto, buoni per i turisti, anche se a pensarci danno sempre quel frisson, quell’emozione che danno le cose bellissime che non torneranno mai più. Ora le chiavi di quell’appartamento berlinese sono appese come un oggetto di culto in una mostra dedicata al Duca Bianco. Una mostra appassionante e indimenticabile, partita nel 2013 da Londra, città in cui David è nato, e sbarcata nel 2014 a Berlino, città in cui il mitico androgino Bowie, disintossicato dalle droghe e liberato dal jet set, era rinato artisticamente con ispirazioni nuove.
Berlino ispira gli artisti perché è paradigma di uno stile di vita libero da stereotipi, dove tutto pare possibile. Tutto ma non le trasgressioni illecite, che sono punite dalla legge e dalla comunità, dai cittadini stessi, che non allargano le braccia come noi, allenati a una atavica e indifferente sopportazione. Non li posso dimenticare quei giovanotti crucchi con capelli a cresta gialla e verde che una notte, sotto il tunnel della metropolitana, si erano presi la briga di sistemare un neon che si era staccato. E un signore in giacca e cravatta a dar loro una mano. O quei due punk pieni di borchie da far paura che sorridenti, gentili e garbati avevano aiutato una vecchietta ad attraversare la strada. Questa, signori miei, è la civiltà che manca a noi, quel senso di appartenenza a una tribù, dove i componenti devono rispettarsi e aiutarsi a vicenda, al di là delle apparenze e, se tutto funziona bene, è merito nostro e vantaggio nostro, se no, rimbocchiamoci le maniche che nessuna manna ci arriva dal cielo.
Agli occhi nostri paiono come trasgressioni anche certe abitudini che potrebbero risultare persino snob, se non fossero ingenuamente autentiche. Abitudini come, per esempio e per la gioia dell’ambiente, la capillare abitudine ad usare la bicicletta e per contro la scarsa propensione ad usare la macchina. L’auto non rappresenta lo status symbol che conosciamo noi, è semmai il mezzo di trasporto delle emergenze o, tutt’al più, delle vacanze. Persino in occasione delle serate di gala, i berlinesi arrivano nel freddo pedalando sulle loro biciclette e le lasciano parcheggiate a grappoli fuori di ogni locale pubblico. I genitori accompagnano all’asilo o a scuola i loro pargoletti accomodandoli in certi vagoncini agganciati alla bici, ben protetti e coperti. Se ne vedono alcuni (pochi!) anche da noi, ma abbiamo un ritardo di almeno venticinque anni e chi li possiede li ha comperati in internet da ditte tedesche,.
e come usano i mezzi pubblici! Scorrono silenziosi nella loro capillare metropolitana, con i loro abiti elegantemente kitch come in una sfilata d’altri tempi..
Non mi è difficile adeguarmi a questo standard: i mezzi pubblici sono sicuri e sorvegliati e la macchina sarebbe un aggeggio superfluo e ingombrante. All’occorrenza si può sempre prendere una bici del bike sharing, che è un vero servizio, affidabile ed efficiente, mica come il Tobike che quando ti serve non c’è mai. Alla peggio si salta su un taxi, a costi che non svenano davvero nessuno.
Nei suoi oltre trecento tra teatri, cinema, locali notturni (curiosa è la gran quantità di frequentatissime sale da tango, per lo più in stile art deco) Berlino accoglie una folla di persone interessanti e vivaci, aperte, senza pregiudizi alle novità come alle più ardite sperimentazioni. Locali sempre affollati, nonostante che Berlino, con nemmeno tre milioni e mezzo di abitanti, sia lontanissima dall’essere popolosa come Parigi o Londra, pur essendo altrettanto o anche più estesa. E’ dunque una città operosa ma gaia e, ricordando di avere da due mandati un sindaco amatissimo e gay dichiarato, è davvero il luogo ideale per ospitare la Cristopher street, sfilata che ogni anno a fine giugno celebra in un modo spettacolare, coloratissimo e pieno di musica e di ogni tipo di travestimento la lotta per diritti degli omosessuali iniziata nel 1969 a New York. Non è un caso che parlando di Berlino si arrivi a parlare di New York: queste due città, così lontane, hanno tuttavia uno spirito comune: sono entrambe simboli di libertà, di capacità di rinascere, di solidarietà. Ma sono anche simboli di potere e di solidità. Mentre il mondo intorno sembra inesorabilmente avviato verso il tramonto, questi sono entrambi luoghi dove tutto sembra ancora possibile.
continua…
Paola Assom