GazzettaTorino, ha deciso di raccogliere opinioni, pareri, punti di vista, sul futuro della città, rivolgendo sei domande, sempre le stesse, a persone impegnate a diverso titolo nella società, nella politica e nella cultura, su un tema rilevante del dibattito pubblico, a nostro avviso trascurato: la Torino di domani.
La città appare in questo momento, come si suol dire “sotto lo zelo di Abramo”, ossia pronta ad essere sacrificata senza sapere bene per chi o per che cosa. E noi, come Isacco, vorremmo che alla fine si salvasse.
Tiziana Andina  è docente e ricercatrice di filosofia teoretica dell’Università di Torino, la ringraziamo per la partecipazione a Torino Domani.

Torino Domani

Tiziana Andina

Dopo un viaggio all’estero, al rientro la città e talvolta l’Italia tutta appare più piccola, bloccata, come fosse imprigionata dentro ad un incantesimo cattivo. Prova anche lei questa sensazione, e se la risposta è si da cosa reputa sia dettato questo sentimento.
Amo molto l’Italia, alle volte un po’ meno gli italiani. Il nostro è un paese complicato: continua a essere diviso in due macroaree dopo oltre cento e cinquanta anni di storia unitaria. Il nord guada con sospetto il sud e il sud si sente incompreso e depredato, di risorse e di capitale umano.
E poi c’è una criminalità diffusa e una tendenza alla corruzione che permea sia il nord che il sud: gli italiani resistono a considerare la cosa pubblica una cosa di tutti, spesso preferiscono vederla come qualcosa da utilizzare per i propri scopi. Credo che questo sia uno dei problemi più resilienti che l’Italia ha.
Non siamo imprigionati in un incantesimo cattivo, semplicemente abbiamo moltissima difficoltà a considerare l’etica pubblica come un valore da proteggere e tramandare. Mi viene in mente un famosissimo saggio scritto qualche anno fa da Garrett Hardin (1968) sui beni comuni: “The Tragedy of Common”. Hardin notava come le risorse naturali pubbliche (che sono a tutti gli effetti dei commons) sono costitutivamente limitate; ciononostante non ci preoccupiamo affatto di utilizzare a nostro vantaggio quella parte che sarebbe destinata al benessere delle future generazioni. Questo perché, in linea di massima, siamo portati a pensare che se qualcuno può utilizzare qualcosa che non gli appartiene, la cui disponibilità è per di più gratuita, certamente lo farà senza avere alcun riguardo per la conservazione della risorsa e, dunque, senza alcun riguardo per chi verrà dopo di lui.
Ecco, gli italiani sono specialisti in questo, guidati da una antropologia negativa – ovvero dall’idea che il loro prossimo, non lui stesso, abbia la tendenza a raccomandare, rubare, traccheggiare – che è diffusa e radicata. In realtà, molto modestamente, impera un individualismo davvero poco edificante. Un esempio: pensi a come negli anni Settanta del secolo scorso il governo Rumor ha programmato il futuro del paese attraverso l’assetto del sistema pensionistico. Si sono fatte andare in pensione milioni di dipendenti pubblici, dopo che avevano lavorato dai 14 ai 25 anni, con il semplice scopo di consolidare il consenso, creando un buco gigantesco nel nostro sistema pensionistico e caricando le nuove generazioni di debiti da pagare.
Credo che questo sia uno dei vizi peggiori di questa Italia sofferente: non possiede una dimensione politica e sociale istituzionale, non pensa di avere una dimensione transgenerazionale, ma si pensa solo qui ed ora, ed anche questo, spesso, le riesce male.
Il dibattito sul futuro di Torino, su cosa voglia divenire, cosa ambisca a rappresentare, quale tipo di identità desideri per se ed i suoi abitanti sembra inabissarsi e virare ad un pensiero che verte solo sui conti, sui debiti, sulle spese; una grande liquidazione dei progetti e dei sogni. Come siamo arrivati a questo?
Anzitutto non credo sia un problema solo di Torino, è un problema italiano e di molte società occidentali: il nostro paese è ancorato al presente perché il presente spesso viene percepito come zavorrato da cose che non sono state causate da coloro i quali vivono qui e ora. O almeno questa è l’impressione e questa impressione spesso genera frustrazione. Pensi al debito pubblico. Da noi la questione è particolarmente sentita poiché non si parla quasi d’altro. Praticamente tutto sembra impedito da questo gigantesco fardello, il debito, che insieme a una crescita debole pone vincoli stringenti alle scelte politiche e alle possibilità di vita delle persone. In altre democrazie la situazione è migliore, ma spesso solo perché la crescita tampona in modo più efficace la criticità della questione del debito e dunque la gente ci pensa meno. Se gli Stati Uniti dovessero smettere di crescere al ritmo in cui crescono la questione del debito diventerebbe persino più critica che da noi. Si tratta dunque di una situazione che accomuna molte democrazie occidentali.
Come siamo arrivati sin qui? Mi viene da risponderle perché in genere siamo stati e siamo più attenti allo spazio (cose come i confini e la loro protezione) che al tempo (cose come la durata nel tempo delle nostre società e le generazioni future). Siamo attenti al presente e disturbati dal futuro: la questione è che siamo legati non solo tra noi ma anche con chi verrà dopo di noi e il futuro prima o poi si presenterà a chiedere il conto. Che le persone per lo più non lo capiscano può anche essere comprensibile, che non lo capisca la politica, che dovrebbe rappresentare gli interessi di un paese nel suo presente e nel suo futuro, è assai più grave.
Poi perché pensiamo che il mondo sociale, diversamente dalla realtà naturale, non sia soggetto a vincoli: una pietra cade verso il basso in forza della legge di gravità e questa è una legge di natura, mentre pensiamo a piacimento di poter non pagare un debito o infrangere una promessa. In qualche modo questo è vero: ma dobbiamo stare attenti al fatto che contrarre debiti e promesse pone ugualmente dei vincoli, che hanno una diversa natura, ma che permeano e costituiscono la realtà sociale. Rescinderli, purtroppo o per fortuna, è molto complicato e di certo non è sufficiente la volontà per farlo.
Cosa sarebbe opportuno fare per ripristinare fiducia, grinta, carattere, alla città ? Trovare un modello da seguire, che so Amsterdam o Londra, per dinamismo e opportunità, o dobbiamo individuare e inventarci un’altra strada ?
Credo che ciascuna realtà debba trovare la propria strada, ispirandosi a buone pratiche, certo, ma puntando sui propri punti di forza. Torino ha un ottimo polo universitario ed è un centro culturale eccellente: penso alla sua rete museale, per esempio.
Ha saputo resistere alla crisi della Fiat che avrebbe potuto essere catastrofica per la città, oltre che per l’Italia. E ha saputo reinverntarsi agli inizi del 2000, un periodo in cui la città è stata indubbiamente ben amministrata.
Non sarei troppo pessimista sul suo futuro. A patto che i torinesi sappiano guardare il mondo per quello che è e non siano nostalgici di ciò che è stato – per altro credo che nessuno rimpianga la Torino degli anni Ottanta del secolo scorso. A mio giudizio, bisognerebbe investire su ricerca, cultura e impresa: sono i tre assi portanti di ogni società complessa. La ricerca permette di creare innovazione scientifica, sociale e tecnologica, la cultura permette di gestirle e di gestire la macchina politica e burocratica di una società, l’impresa permette di creare ricchezza. Non scordiamoci che l’unico modo sano per redistribuire ricchezza è quello che porta prima a crearla. Altrimenti ricadiamo nel vecchio vizio italico di distribuire ciò che non c’è per mantenere il consenso politico mettendo in carico il conto alle nuove generazioni. Il che non solo è egoistico, ma più propriamente, alla lunga, suicida.
La politica possiede ancora la capacità di coinvolgere e costruire un’appartenenza, ha perduto la pietra focaia che accende passioni o, semplicemente ha smesso di usarla? 
Certamente ancora coinvolge, solo che lo fa in modi molto diversi dal passato. La mediazione delle nuove tecnologie è un fatto rilevante che va studiato con attenzione. Per due ragioni: perché permettono una diffusione di opinioni gigantesca, creando un rumore di fondo che non sempre è positivo. E questo accade dal lato della società civile. Dal lato della politica, che gestisce il potere, sta emergendo un rischio molto serio: che chi ha il compito di governare faccia da specchio alla società civile, limitandosi a soddisfare i desideri di una massa informe, quella di coloro i quali votano i partiti che sono al governo. La democrazia rappresentativa non è questo: governare dovrebbe essere rappresentare quei desideri e quelle idee confuse, facendole diventare un progetto politico di lunga durata, non specchiarvisi dietro la spinta di un narcisismo di fondo. È non è nemmeno sventolare il miraggio di una democrazia diretta: Nietzsche era solito dire che l’essere umano è una corda tesa tra l’animale e l’oltre-uomo. Bene, una società che volesse permettersi il lusso di vivere in un sistema di democrazia diretta dovrebbe essere popolata di oltre-uomini, il che, evidentemente, non è il caso non solo dell’Italia, ma di nessuna delle democrazie occidentali.
A cosa attribuisce il fatto e la responsabilità di non vedere e sottostimare le cose meritevoli e buone del nostro paese? 
Credo che i problemi siano stati fondamentalmente due: ida un lato, il berlusconismo culturale degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso che ha contribuito a creare modelli totalmente farlocchi, spostando l’attenzione dalle cose solide a quelle che dovrebbero essere considerate mediamente irrilevanti. Dall’altro, il pessimismo di fondo che è conseguito dall’impoverimento del paese, che ha creato frustrazione e risentimento. Se a questi due fattori aggiunge la difficoltà degli italiani a immaginarsi come una comunità e a nutrire rispetto etico e istituzionale per lo stato che quella comunità rappresenta ne esce il panorama non troppo edificante in cui ci troviamo ora. È abbastanza ovvio, per certi versi, che tutto questo stia producendo una profonda latenza della politica.
C’è un libro, un film, o uno spettacolo teatrale, che a suo dire rappresenti al meglio il nostro tempo e prefiguri un indizio interessante per il domani ?
Gliene suggerisco due: il primo è un saggio di filosofia politica di qualche anno fa. S’intitola in Difesa dell’anarchia (Elèuthera 1999), di Robert Wolff. Mostra molto bene perché non possiamo permetterci il lusso optare per una democrazia diretta.
Il secondo s’intitola Scienza Nuova. Ontologia della trasformazione digitale (Rosenberg & Sellier 2018) ed è scritto da Maurizio Ferraris e Germano Paini. Spiega le ragioni teoriche e la visione di futuro che è alla base di Scienza Nuova, il centro di ricerca nel quale l’Università e il Politecnico collaboreranno per governare i cambiamenti introdotti a tutti i livelli dalle nuove tecnologie. Si tratta di produrre ricerca e, insieme, di governare le rivoluzioni che quella ricerca ha introdotto. Una sfida cruciale in cui Torino è all’avanguardia.

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