La fragile meraviglia nelle foto di Paolo Pellegrin – Gallerie d’Italia 

A permeare la visita presso la nuova sede torinese di Gallerie d’Italia non è soltanto un tuffo – letteralmente, essendo lo spazio espositivo allestito nella porzione ipogea del barocco Palazzo Turinetti – nell’occhio di uno dei reporter italiani più noti, Paolo Pellegrin, ma anche, si chiarirà più avanti, un assorbimento: il titolo della mostra “La fragile meraviglia – Un viaggio nella natura che cambia” rimanda all’immaginario ormai da molto e molti masticato della cura ambientale, del delicato ecosistema che sta venendo senza scrupoli calpestato rischiando di farlo da un momento all’altro collassare.

Il lavoro, commissionato da Intesa San Paolo a Pellegrin e da questo portato avanti dal 2017, vuole far emergere una visione della natura incontaminata dal torpore in cui è caduta, svelandone i risvolti tanto straordinari all’occhio quanto dall’uomo temuti, formulando quasi un nuovo concetto di “sublime” romantico ed ecologico insieme.

Le foto di Paolo Pellegrin

Vulcano Fagradalsfjall, penisola di Reykjanes. Islanda, 2021 (©Paolo Pellegrin/Magnum Photos)

Il focus è immediato come la tesi da dimostrare: “Due anni fa gli è stato chiesto di andare a raccontare il mondo, a fotografare qualcosa che avesse a che fare con la natura in pericolo” dice il curatore Walter Guadagnini. Per la prima volta, quindi, l’attenzione di Pellegrin è rivolta all’ambiente in cui l’uomo vive e non alle azioni umane agite nel mondo. Lo sguardo è limpido, di facile fruizione, bello.

La bellezza pare in qualche modo in questo lavoro posta come punto di partenza e di arrivo allo stesso tempo, senza che venga formulato un percorso argomentativo tra un punto e un altro, senza che l’estetica della natura serva come trampolino per un lancio più lungo.

Le foto di Paolo Pellegrin

Baia di Disko, Ilulissat. Groenlandia, 2021 (©Paolo Pellegrin/Magnum Photos)

La mostra è un assorbimento, si diceva: assorbire significa attrarre e incorporare un elemento esterno e farlo proprio. Nel caso della mostra dedicata a Paolo Pellegrin, il fenomeno è spiegabile nei termini secondo cui una suggestione, ripetuta e declinata in modo uniforme, possa entrare per vie sotterranee nella visione di chiunque si sottoponga a riceverla. Il risultato della visita, per certi versi, non è tanto il poter portare a casa delle immagini precise, cui magari si tornerà con la mente per qualche giorno ancora ricordando o parlando della mostra, quanto l’aver incamerato un insieme omogeneo di informazioni, cui ognuno potrà trovare il senso da attribuire.

Ciò su cui pare essersi sbizzarrita la creatività, invece, è tutto il contorno alle immagini, dalla carta al metodo di stampa fino ai supporti. Quello che sta man mano venendo a galla dalle recenti visite in mostre fotografiche è quanto la fotografia venga proposta più come esperienza immersiva che come momento di contemplazione visiva. Anche nel caso della mostra di Pellegrin, le luci molto basse, ogni tipo di supporto per incorniciare e presentare le immagini – dalle lastre di vetro stratificate su un’unica immagine, a più tipi di cornici, dalla gelatina d’argento alla carta d’archivio ai pigmenti – suggeriscono la volontà di far percorrere un cammino di suggestioni diversificate.

Le foto di Paolo Pellegrin

C’è da chiedersi, forse, se parte del messaggio da trasferire possa essere contenuto in questi fattori materiali, o se, appunto, il fine di tali scelte possa semplicemente rendere più accattivante la fruizione delle immagini.

E’ vero, la fotografia è bene che non rimanga fissa sui soliti punti cardinali cui siamo abituati per orientarci in questa disciplina, facendola “esperire” in tutti i modi che i correnti mezzi consentono, ed è interessante osservare su quale aspetto si punti maggiormente per permetterne il progresso.

Tornando alla mostra e alle immagini più nello specifico, il lavoro di Pellegrin si dirama agevolmente tra il colore e il bianco e nero portandoci a spasso tra i continenti: l’autore pare li faccia abitare, se abitati, da una creatura per volta: il gorilla, la zebra, l’elefante, in totale solitudine, quella in cui solitamente vivono i simboli, si contrappongono teneramente all’ingarbugliato discorso che compongono le disparate vegetazioni notturne delle foreste pluviali. Allo stesso modo, gli stormi di uccelli ripresi in tre video proiettati contemporaneamente nella sala successiva, fanno da contraltare alla desolazione dei ghiacciai e delle spiagge, lì invece rappresentati come icone immobili e immacolate.

Le foto di Paolo Pellegrin

Ancora un punto, forse il più felice della mostra, è lo sguardo di Pellegrin alle conformazioni astratte che la natura da sola compone, come nelle radici degli alberi o le crepe sui ghiacci: lo spiraglio, sembra suggerire, forse va individuato lì.

Le foto di Paolo Pellegrin.

Riserva-della-Foresta-Nebulosa-di-Monteverde-Costa-Rica-2022-©Paolo-PellegrinMagnum

Il fotografo austriaco Ernst Haas, anche lui, come Pellegrin, membro dell’agenzia Magnum, diceva che il processo in fotografia può essere descritto “dal dato di fatto all’immaginazione e di nuovo al dato di fatto.”

Questo, a riguardo degli scatti informali – chiamiamoli così – di Pellegrin, risulta particolarmente evidente. Più che mai infatti quegli scatti hanno il potere di suggerire l’estetica e il dinamismo intrinseci dei movimenti sotterranei con cui la natura agisce, respira e vive. Per farlo, l’occhio deve avvicinarsi, a volte piegarsi, a quella porzione di realtà, e forse capire che accostarsi molto altro non significa che poter avere accesso a ciò che sta oltre.

Carola Allemandi