La vita al tempo del Virus

Chissà se alla fine sarà la scienza a salvarci ancora una volta.

Quel fuoco di Prometeo che possediamo e disperdiamo, con cui diamo cibo alla fame incoercibile della tecnica e di cui ci ergiamo tutori, psicopompi, cultori o impavidi possessori. I laboratori, le formule, la chimica, la genetica insieme alla fisica sono le nostre forze armate, accorpate in cloud e poi in viaggio sulle rotte invisibili tracciate dal digitale e dirette verso la scienza prima. La medicina.

Troveremo la formula del vaccino? Come Merlino, maghi alla ricerca della pozione magica, escogiteremo un efficace contro incantesimo che ci restituisca la strada, la piazza, gli altri. Riporti le cose la loro posto, rinserri con uno stratagemma il virus malefico in una bottiglia o in una lampada e poi lo sotterri in prigioni buie nel fondo di una caverna.

La vita al tempo del Virus

Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli, Sala dell’Udienza Palazzo Pitti, 1637 – 1639 Firenze

 

Ad ora come principesse ambite ci tocca la torre e la solitudine involontaria della nostra abitazione, un sacello che può trasformarsi rapidamente in carcere se, per esempio, non abbiamo destinato almeno un retrobottega a granaio; dove i libri siano molti e possano alzarsi fino a condividere la polvere con il soffitto.

Una solitudine così diversa da quella che Montaigne scelse per se stesso intorno ai quarant’anni, considerata “medicina dello spirito” e tesa a raggiungere quel fatale saper essere per sé. Non per noi, su di noi grava e offusca il placebo, la suggestione triste, di assertire all’insipiente smart working. Il lavoro in solitudine è per la corazza da tartaruga feroce di una artista. Privo di velocità, contratto e in lotta pacifica e spietata con forme di infinito estetico impossibili ai più.

La vita al tempo del Virus

Michel Eyquem de Montaigne, Bordeaux, 28 febbraio 1533 – Saint-Michel-de-Montaigne, 13 settembre 1592

Ma noi sociopatizzati dai social inseguiamo rumore e folla come falene dipendenti dalle luci dei selfie e di un regno qualunque foss’anche senza paradiso. Il rischio più grande, il dilemma maestoso sarà comprendere se alla fine rinsaviti e nuovamente gaudenti non saremmo divenuti un pochino più savi.

Senza virus e senza una metafisica nuova da miscelare con la scienza, ci toccherà attendere nuovi barbari. Invece, se per caso imparassimo la lezione, ritorneremmo a desiderare ed amare con rinnovata gioia quel gioco a campo lungo che si chiama futuro. Quel futuro bistrattato dalle nostre paure al punto da preferire sostare in un impossibile eterno presente piuttosto che spingerci a immaginare un luogo ospitale ed accogliente per nostro merito.

Rinsaviti, vorremo ringraziare con devozione l’Alberti Leon Battista, il poliedrico umanista figlio del Rinascimento, per averci insegnato la prospettiva, a osservare e costruire la lontananza, a scorgere il punto di fuga che è il domani, inserendolo in un riquadro di carta piccolo piccolo, come le nostre vite.

 

 

 

 

 

 

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