Adelaide scendeva dalla collina correndo con la sua 126 blu, le piaceva andare veloce e francamente avevamo fretta. Il tavolo da tapezziere (così si chiamava quando andavamo a comprarli per fare tuttaltro che le tapezzerie) occupava tutto  il sedile posteriore, io aggiungevo tre sedie pieghevoli e andavamo in centro.
La Torino di Adelaide Aglietta

Adelaide Aglietta

L’Italia cambiava sotto i nostri occhi: e il cambiamento passava per i nostri tavoli. Tutto accadeva come in un giardino nel quale sbocciavano fiori sempre nuovi e diversi.

Ma eravamo noi a innaffiarli, senza di noi non sarebbe accaduto nulla. E quando dico noi intendo dire quella strana legione di soldati nonviolenti che siamo stati, fedeli e ortodossi fino al settarismo, ma capaci di stupire chi di noi non ha mai capito nulla. Essenzialmente il Pci e la sinistra di classe.
Si, questa storia di Adelaide Aglietta santificata come crocerossina delle carceri, icona della sinistra di sempre o  come una Greta ante-litteram, non facesse sbellicare dal ridere farebbe piangere .
Perciò è bene tornare un attimo ad Adelaide quella vera, una donna borghese attiva e intelligente, la cui vita cominciò impercettibilmente a cambiare quando vide in tv un film antimilitarista e decise di cercare quei tipi strani, gli obiettori di coscienza.  Nella stessa sede io cercavo i veri divorzisti o gli eredi di Pannunzio, e mi trovai fra cinque o sei persone (Angelo Pezzana, Davide Perazzelli, Armano Puglisi e pochi altri) che con una certa dfficoltà si chiamavano “compagni”. Adelaide cercava gli insoumis, la nonviolenza che disarma il potere, e trovò anche il grande fiume del femminismo, della gravidanza responsabile, dei diritti civili.
Tutto, a ben vedere,  si era messo a correre in quella strana notte, quando andammo a vendere il giornale . Liberazione, così si chiamava , ci era arrivata a casa il 10 Maggio del 1974. Molti pacchi uno accanto all’altro, per un giornale di sole quattro pagine con stampato a carattere cubitale il titolo IL NO HA VINTO.
La ragione era abbastanza semplice: se il NO avesse perso e il divorzio fosse stato abrogato il nostro piccolo partito sarebbe semplicemente finito con il risultato referendario. Se invece il NO avesse vinto e il divorzio fosse divenuto definitivamente legge dello Stato , avremmo fatto un po’ di autofinanziamento vendendo quel bel titolo strillato e fresco di stampa.
Quella notte del 13 maggio 1974, in un decina e con in testa Adelaide, vendemmo tutti i giornali. E dall’indomani capimmo che l’Italia che avevamo scoperchiato era ormai irrefrenabile : dopo il divorzio il nuovo diritto di famiglia, il voto ai diciottenni, le battaglie per lo stato laico, il corpo e i diritti della donna e via cambiando come solo l’Italia seppe così velocemente cambiare, lasciandosi alle spalle un’altra era. Così come velocemente era cambiata Adelaide .
Capolista a Torino nella folle e vittoriosa corsa radicale al Parlamento, nel partito che cercava personaggi-simbolo lei era stata scelta come prima donna a diventare segretario del partito.
E io dopo averla sostituita nell’incarico di segretario regionale per un biennio, l’avevo seguita a Roma, orgoglioso del mio ruolo di membro della segreteria nazionale al punto di fottermene allegramente di libretti, esami, facoltà.
La Torino di Adelaide Aglietta

Giovanni Negri

A Torino, Adelaide e noi tutti, però ci tornammo quando l’Italia cominciò a prendere un’altra piega. Questa volta amara, disperata , violenta. Gli anni ’70 dei diritti civili ormai erano appannati dagli anni di piombo che si facevano largo, con il loro carico di ideologia e di morte. 
Ma anche in quell’Italia ci toccò presentarci puntuali a un appuntamento, e prima di tutto toccò ad Adelaide. E fu anche, certo, un appuntamento con la paura.
Quell’atmosfera, quell’incrociarsi di manovre fra terrorismo e Stato, quel pericolo per la stessa vita fisica dei nonviolenti mai furono più in gioco come nel caso che condusse la segretaria del Partito radicale, Adelaide Aglietta, a svolgere il ruolo di giudice popolare nello storico processo a Renato Curcio e ai capi delle Brigate rosse.

No, non fu un caso. L’estrazione del nome di Adelaide come giudice popolare fu “casuale” come la morte di Giorgiana Masi.
Il potere, quello più umbratile e misterioso, quella volta provò a sfidare i nonviolenti per ridurli a vittime o a complici. Ricordo quei sessanta giorni – in una Torino immersa nell’incubo – come i peggiori della mia vita. Eravamo in quattro a vivere giorno e notte con Adelaide, che aveva rifiutato per scelta di partito la scorta offerta dal titolare del Viminale Cossiga.
Passavamo lunghe ore del nostro tempo a immaginare chi avrebbe potuto spararci addosso, cambiavamo alloggio ogni tre giorni, vivevamo braccati come prigionieri, arrivare all’aula del processo e ritornare a una delle case che, di volta in volta, i radicali ci mettevano a disposizione era un’impresa. Per impedire la celebrazione del processo ai loro capi, le Brigate rosse avevano revocato ogni incarico ai difensori, rifiutavano la difesa d’ufficio, minacciavano pubblicamente chiunque accettasse di comporre la giuria popolare.
L’assassinio del maresciallo dei carabinieri Berardi e dell’agente penitenziario Cutugno gettarono la città nello sgomento. Il nostro momento peggiore fu tuttavia quando a cinquanta metri da casa mia fu assassinato il presidente dell’Ordine degli avvocati Fulvio Croce, reo in quanto rappresentante della categoria di aver accettato l’incarico di difensore d’ufficio.
Ancora oggi mi chiedo come si possa essere usciti da quell’incubo senza cedere al ricatto terrorista e senza farsi strumento di un potere pronto a inasprire oltre ogni limite leggi e regolamenti, a sospendere ogni garanzia, a fare di ogni dissenziente l’erba di un fascio da liquidare con l’etichetta di “terrorismo”.
La risposta che ancora oggi mi do, purtroppo, è una sola: Adelaide non fu colpita, e noi con lei, perché i nostri potenziali assassini erano stati i nostri compagni di scuola, i vicini di corteo, i protagonisti di scioperi e mobilitazioni studentesche.
Quando scoprii il ruolo dell’archivista del mio liceo, Marco Donat Cattin, quando lessi i nomi della direzione strategica di Prima linea a Torino – tutti compagni di classe in una sezione dello stesso mio liceo, il Galileo Ferraris, dove erano stati sciaguratamente riuniti dal preside tutti i responsabili del servizio d’ordine di Lotta Continua –, capii come forse la sopravvivenza in quegli anni fosse stata solo un caso, un’ironia della
sorte.
E questa , quella di tutti i terribili anni di piombo, fu un’altra stagione che vide spesso Adelaide avere paura e piangere. Ma anche , e così spesso, sperare e sorridere.
Giovanni Negri
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