Il mestiere del designer ha una curiosa affinità con la politica, il teatro e la conduzione di ristoranti modaioli. Li unisce la disperata necessità di “figurare” e di restare abbracciati ad ogni folata della moda passeggera, soprattutto per farsi percepire come relevant, almeno ufficiosamente certificati come “significativi” attraverso la ricorrente presenza sui media.

Non si tratta di mera vanità. Stare sul mercato – professionale oppure commerciale – è strettamente legato alla notorietà. Fa parte del lavoro: non basta essere abili se non lo sa nessuno. Da questo il pressante bisogno di trovare la maniera di inserirsi in tutti i grandi fatti del momento con le idee del momento. Così, oggi c’è molto movimento sul tema “Black Lives Matter” e la ricerca di progetti che segnalino il proprio anti-razzismo: il rifiuto degli architetti americani di lavorare sugli istituti di pena o la geniale proposta dell’artista inglese Banksy per un monumento a quelli che buttano giù i monumenti.

La tendenza è particolarmente marcata nell’era Covid che – finché durerà il senso d’emergenza – parrebbe offrire anche importanti opportunità commerciali, con la vita e gli spazi pubblici e privati tutti da rifare. Però, improvvisamente saltano fuori nuovi paradigmi.

La molto vituperata plastica, per esempio, è stata repentinamente riabilitata per il suo ruolo – necessario e “nobile” – di proteggere dal contagio: con gli onnipresenti pannelli di plexiglas, le visiere trasparenti del personale sanitario e i guanti mono-uso. Perfino il “tessuto non tessuto” delle mascherine e delle tute usa e getta viene perdonato.

La riabilitazione della plastica

Parlare – e pensare – male di questi materiali è stato praticamente un’industria in sé, una maniera per segnalare il proprio attaccamento all’ambiente e la preferenza per il naturale. Poi, di punto in bianco, tutto ciò è cominciato a sembrare una sorta di “anti-vaxismo” dello spirito creativo, inducendo terribili attacchi di dissonanza cognitiva – la difficoltà di sostenere più pensieri che risultano in contraddizione tra loro, generando secondo i testi di psicologia “tensione e disagio”.

Ne offre degli interessanti esempi un recente articolo su “Dezeen”, una nota newsletter britannica di design, in cui diversi creativi “profondamente preoccupati” esprimono sdegno per il pubblico “ossessionato della propria sicurezza che si dimentica dell’ambiente”, per lo “spreco” della plastica utilizzata nella produzione di maschere e guanti protettivi, come anche per i ristoratori che – impossibilitati a servire direttamente il pubblico durante il lockdown – hanno incluso posate e bicchieri mono-uso con i pasti d’asporto. Peggio, il crollo dei prezzi petroliferi ha reso la plastica più economica che mai.

Pare quasi che la maggior parte della gente abbia dato la priorità alla pandemia, mettendo l’ambiente in secondo luogo”, osserva con disappunto il designer Dave Hakkens.

Strana la gente, più preoccupata per un’epidemia letale che ha contagiato milioni di persone che per un corretto comportamento ambientale – quasi come se avesse data la priorità alla sopravvivenza personale…

Courtesy James Hansen

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