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Torino è la mia città. La città che è mutata con me. Che ha visto cambiare il mio sguardo sul mondo, che mi ha visto felice e infelice a seconda dei momenti. Che mi ha visto andare e tornare. Ma, la maggior parte del tempo, abitare. Una città che abiti, in qualche modo ti ‘ abita’, ti entra dentro, ti conosce a fondo. E, allora, non sono i grandi monumenti o le piazze storiche che amo di più della mia città. Di questa mia cauta e al tempo stesso insolita isola del nord a me piace cosa mi appartiene. E, alla fine del gioco, quello che sento ‘mio’, che odora di casa,  lo posso contare sulle punta delle dita.
Da bambina conoscevo bene di Torino un unico posto: il parco Rignon o Villa Amoretti. Lì c’era ( e c’è ancora) un albero multi radici che pareva un comodo e nodoso rifugio. L’albero era il complice perfetto dei nostri nascondigli, delle merende in posizione sospesa, delle rincorse in tondo.  Era la tana ideale per giornate assolate e la casa finale per i vincitori di nascondino. Qualche anno dopo e qualche dente definitivo in più, lo stesso albero è diventato il testimone di confidenze amorose, quando a 12 o 13 anni il cuore palpita per la prima volta e non sai bene perchè. L’età perfetta per non sapere chi sei e cosa stai diventando.
Del  giardino dove la primavera prima ti arrampicavi ovunque non sai più che fartene. Lo sguardo si posa su tutto e non riconosci più niente. Allora nascono le lunghe passeggiate, falciate di chilometri spesi in pochi metri quadrati sotto casa, per poter raccontare a quelle due o tre amiche cose che reputi segrete.
L’albero è lì: fermo al suo posto e tu gli giri attorno. Non ti siedi più sui suoi rami ma i suoi rami ti osservano. E, dall’età dell’indifferenza a quella della ‘conoscenza’. Pochi metri più in là dell’albero, nella biblioteca della storica villa Amoretti, che speravo un giorno di poter far mia. Oggi sull’austero albero ci salgono i miei figli, toccano i rami robusti e fanno merenda. Si nascondono,si riscoprono e urlano di sorpresa. In quei sussulti c’è tutto un mondo racchiuso in quel piccolo spazio, tra un lembo di terra e un ramo che guarda in su.
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Per guardare in giù c’è, invece,  una piccola riva sabbiosa a cui non posso rinunciare:  quella meno mondana del Po, dall’altra parte del Parco del Valentino. Quella da cui osservi il Castello e senti il vociare dell’altra sponda,  la luce del giorno che cambia i contorni delle cose e puoi permetterti di far fluire i tuoi pensieri sul moto lento e imperturbabile dell’acqua. Lì c’è una casa dalle ante verdi. È la mia calamita.
Mi piace guardarne e spiarne l’immobilità sorniona dietro le ante accostate,immaginandone la vita all’interno. Sempre lì attorno mi piace perdermi nelle vie, ora trasformate in un brulichio di locali, di San Salvario dove ho lavorato tanti anni e altri anni prima ho provato palpiti e tormenti d’amore. Ma cosa mi piace di più è fermarmi a parlare nei negozi. Scovare le antiche erboristerie con radici appese in vetrina e le drogherie multilingue e deformare il tempo per poter ascoltare qualche storia. Perchè per me le storie sono tutto e quelle te le possono raccontare solo le persone.
Ecco perchè borgo San Paolo è la mia casa, fuori casa. Perchè scopro in quel  pout pourri a raggiera di uomini e case tra  via Pollenzo, via Cantalupo, via Murialdo e via di seguito una trasformazione sociale e umana che mi affascina.  Desueti risuolifici  e sartorie con le antiche insegne anni ’50 – alcuni dei quali gestiti da anziani cittadini del Sud Italia ormai torinesizzati – si alternano a macellerie arabe e rumene, kebbabari, parrucchieri e sartorie cinesi, gastronomie sud americane e forni con i migliori grissini locali: i rubatà. Lo slang locale è un crocevia di dialetti: un mix di arabo-calabro-napoletano- rumeno e piemunteis.
Tra il chiasso delle rotaie del tram e il fermento di via Monginevro mi fermo nel mio ristoro preferito. Una libreria di Via Pollenzo, il gatto immaginario, dove scovo libri per i miei figli e parlo con la simpatica libraia di quello che leggo io. Non mi posso perdere nell’odore inconfondibile della carta antica perchè quello non c’è ma mi perdo nelle illustrazioni della letteratura per l’infanzia, in quei colori e in quelle immagini che ti trascinano via. Nella solita malia che mi cattura quando sfoglio le pagine e le  parole, le frasi e i dialoghi si trasformano in una storia e colorano immediatamente la mia mente. Mio padre, nella sua umile semplicità,  aveva qualche intuizione e qualche curiosità letteraria.
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Un giorno, quando avevo circa otto anni,  mi portò in una piccola libreria gestita da una coppia di anziani in Via Gorizia.  Di quel pomeriggio mi è rimasto impresso il profumo dei libri, lo spazio piccolo ma pulsante, il viso rotondo della donna.  Sono passati 37 anni. La vecchia libreria si è trasformata in un anonimo negozio di ricambi elettrici. Quando ci passo davanti non posso fare a meno di guardarlo.
È il segno che da qualche parte, nella nostra storia, ci sono momenti che non si cancellano. E vie, angoli, volti. Come quello che intravedo spesso dai vetri di una piccola sartoria cinese in C.so Peschiera. Dietro la macchina da cucire c’è lei: piccola, stanca, con gli occhi gonfi dal tanto cucire. Luci al neon e frammenti di stoffa ovunque.  Entro dentro e, al posto della solita richiesta di cucito ‘veloce ed economico’, le chiedo come sta. Da dietro la macchina mi osserva rasserenata. Spendiamo poche parole: sulla pioggia incessante, sui figli che crescono, sul tempo che vola via troppo veloce. Alla fine i minuti diventano dieci ma sia sul mio volto che sul suo è rimasto un sorriso. Autentico. Come alcuni angoli della città, quelli che amo.
Gabriella Mancini

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