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I principi restano e le idee invece cambiano 

con gli uomini cui vengono date in appalto.

Indro Montaneli

 

 
 
 
 
Ero immobile, alla fermata dell’autobus e per me era una situazione insolita, questa. Avevo sempre preferito camminare: un’azione poco adatta ai nostri tempi ma che, in ogni caso, a me piaceva da morire. Se cammini non hai attese, vai e poi ti fermi, quando vuoi. Era questo il mio metodo per non essere mai in ritardo.
Ieri mattina però pioveva e c’era vento e io l’ombrello non l’avevo mai avuto e mi ero sempre rifiutato di comprarlo da quei venditori ambulanti che un attimo prima le rose, dopo gli ombrelli e la sera le birre. Uscendo dal portone avevo visto la fermata dell’autobus, il 16b, quello giusto, quello che mi avrebbe portato in redazione in dieci minuti. Tutti, al giornale, arrivavano con la metro o con la macchina e mi chiedevano sempre come mai, io, sempre a piedi. Ma loro erano uomini, giornalisti con un contratto a tempo indeterminato, un posto fisso che per noi trentenni ormai non era più nemmeno un’aspirazione. Avevo comprato il biglietto e mi ero messo in attesa. Non c’era nessuno lì e la situazione mi sembrava strana. Mi ero sempre immaginato molte persone, sotto la pensilina, una accanto all’altra, che aspettavano il mezzo che le avrebbe portate al lavoro. Ma forse il punto era che noi giornalisti al lavoro ci andiamo alle tre. Ero in attesa.
Erano passati cinque minuti e per un attimo mi sfiorò l’idea di cambiare, di abbandonare l’inaspettata voglia di variare, mettermi il cappuccio e camminare verso il lavoro. Però avevo imparato, nel ventinovesimo anno della mia esistenza, che oggi, o forse in tutti gli oggi possibili dell’essere umano, uno come me, un Roberto qualunque, se prende una decisione deve saperla portare fino in fondo. Volevo dimostrare a me stesso che questo potevo farlo. L’avevo capito, quando, nell’indecisione tra Chiara e Alice, due bei nomi indubbiamente, ero rimasto, come dire, indeciso. O meglio, ero deciso a voler tornare a casa da Chiara la sera, mangiare con lei, andare al cinema e quelle cose che fanno le coppie che si conoscono da molto tempo. Ma poi, quando nei locali vedevo Alice, sì, io ero altrettanto deciso a voler fare l’amore con lei. Per me era perfetto così, loro due erano la mia donna. Dopo qualche mese tutto andò a rotoli, come nei migliori romanzi, e Chiara, prima di abbandonarmi mi disse che non potevo comportarmi come volevo, che dovevo scegliere e portare avanti la mia scelta, perché solo così avrei potuto costruire qualcosa.
Erano passati quindici minuti e iniziavo ad essere agitato. Nella direzione opposta avevo già visto due autobus e dalla mia parte nemmeno uno. Sotto la pensilina, insieme a me c’era un uomo alto, di colore, che aveva la faccia del controllore ed io mi ero sentito bene per aver comprato il biglietto. Sì, perché solo gli idioti non comprano il biglietto l’unica volta che salgono sull’autobus. È una questione di probabilità. O sei un assiduo frequentatore di autobus che non compra mai il biglietto e quando ti beccano a quel punto ci hai guadagnato oppure lo prendi sempre. Una volta ogni tanto non funziona o meglio, è una sfida, ma io le sfide le ho sempre perse, forse perché non mi ci sono mai buttato. Come con le donne. Bisogna essere coerenti.
Ed io volevo essere coerente quel giorno. Volevo aspettare l’autobus. Erano passati ormai venti minuti. Avevo preso una decisione e doveva essere quella. Alla fine, avevo imparato, avevo scelto Alice e ora tutte le sere la sentivo per la buonanotte e i baci. Non è che mi entusiasmasse, era come stare fermi ad aspettare quel cazzo di autobus che non passava. Stavo lì e davo baci per dovere, perché è impossibile aver voglia di dare baci tutte le sere quasi quanto stare fermi venticinque minuti sotto il freddo ad aspettare un autobus.
Ma, tutto sommato, volevo dimostrare a me stesso e agli altri che ero cambiato. Che ero uno affidabile e coerente che dava un senso a tutto ciò che faceva. Mancavano dieci minuti all’ora in cui avrei dovuto essere al lavoro. Se mi fossi incamminato sarei arrivato in ritardo. Ma se l’autobus non fosse passato il risultato sarebbe stato lo stesso. La tentazione di andare via era forte. E così pensai a Kant, al suo modo di essere: così rigido. Io mi ero laureato con una tesi su Kant e Kant avrebbe aspettato l’autobus. O se ne sarebbe andato a piedi? Avrebbe aspettato? Io stavo aspettando. C’era il vento, tanto vento e la pioggia fitta e insopportabile. E se gli edifici fossero crollati tutti in quel momento, io avrei potuto giustificare il mio ritardo che ormai era assicurato. E se l’autobus avesse fatto un incidente a causa degli edifici crollati? O per un infarto del conducente o di qualche passeggero? Era stato da idioti stare lì, ad aspettare, tutto quel tempo. E se fosse arrivato proprio quando mi fossi allontanato? Dovevo scegliere. Ma io avevo sempre scelto di andare a piedi e perché mai quella mattina no? Dovevo andare a piedi, dovevo fuggire da quella pensilina, dal controllore, dalla fermata. Io non ero mai stato uno da autobus. E così, quella mattina, l’unica mattina in cui Roberto Rossi arrivò in ritardo alla redazione de La Stampa, quella mattina iniziai a camminare, sotto la pioggia, senza girarmi e più sentivo il rumore dell’autobus che stava arrivando più ero contento di camminare.
 
Francesca Riccardi
 
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