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Torino ha un solo accesso veramente degno del posizionamento al quale aspira, quello di città della bellezza: Corso Unità d’Italia. Vista grandiosa sulla collina e sul Po, disturbata ma non troppo, da costruzioni anonime e disorganiche sul lato sinistro in uscita da Moncalieri e dalla filza di concessionarie d’auto sul lato destro. Il tutto compensato però dalla visione dell’imponente Residenza Sabauda. Il traffico in arrivo è in prevalenza ligure-piemontese e qui sta il primo problema. Se da quella porta scenografica arrivasse il traffico da Milano, forse Torino avrebbe guadagnato più rapidamente la reputazione alla quale mira. Purtroppo il traffico maggiore, quello che più incisamente “fa l’opinione” s’imbatte invece nel guazzabuglio, non soltanto urbanistico, di Corso Giulio Cesare e di Porta Palazzo.
Tornando in Corso Unità d’Italia, chi giunge s’imbatte nella stupefacente insensatezza della “coccardata” Rotonda Maroncelli (forse torneremo su questo argomento, e sull’inspiegata sparizione delle colonne di Arnaldo Pomodoro) seguita dall’imbarazzante Palazzo Nervi, detto anche Palazzo del Lavoro, impietosa metafora dello stato attuale del lavoro nella Repubblica retoricamente su di lui fondata.
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Vetri spaccati, recinzioni incerte; icona del degrado, della sciatteria e di una certa, datata, prosopopea. Gli automobilisti che gli sfilano davanti, ossessionati dai limiti di velocità e dalle incombenti multe, non ci fanno neanche più caso. Sono 54 anni che è lì e chi ha l’età per ricordarlo, ricorda anche che sfiorì presto. Pensato senza porsi domande circa la sua utilizzazione successiva (fu costruito per Italia ’61), glorificato da enfatici paragoni dimensionali con la Piramide di Cheope, rivelò, subito concluso l’evento, la sua inadeguatezza a ospitare qualsiasi cosa. Ci provò per qualche anno il BIT delle Nazioni Unite, accampandosi parzialmente sul perimetro. Poi saltuariamente fiere e mercatini, non certo di prima grandezza. Più avanti ebbero sede corsi della Facoltà di Economia (ci tenni una lezione anch’io riportandone un’impressione rattristante). Si vociferò della cessione in uso a un grande gruppo della distribuzione commerciale. Anche qui metafora: il Palazzo del Lavoro che diventa una sede del terziario, dell’ennesimo centro commerciale. Ed eccoci ai giorni nostri e a quel che si vede incontrando il funesto ciclope cadente. La città ha mille problemi, buche nelle strade, pochi soldi, molti debiti.
Di restaurarlo non se ne parla, e a cosa servirebbe poi? Vengo alla mia modesta proposta: demoliamo i lati coperti da quei vetusti brise-soleil che ebbero un effimero successo in quell’architettura anni ’60 responsabile di tante brutture e facciamone una piazza coperta. Forse la più grande d’Europa e anche questo sarebbe un record non trascurabile. La bellezza di quella selva di pilastri (vedi foto nel momento della costruzione), croce e delizia del monumento perché a loro si deve forse la principale ragione dell’impossibile riutilizzo, si esalterà.
Demolire non costa quanto costruire e Torino avrà uno spazio maestoso, al riparo dalle intemperie, dove ospitare grandi eventi, con costi di manutenzione ridotti al minimo. Chi passerà di fianco al ciclope rinato, potrà ammirare una monumentalità oggi penosamente offuscata dal degrado. Il visitatore sarà sorpreso dal gigantismo ed entrerà a Torino con aspettative che è compito di non deludere della città e dei suoi cittadini, che per inciso non parlano il piemontese e in maggioranza non lo capiscono neppure. E’ diventata lingua franca, codice segreto; se vuoi dire qualcosa che non sia capito da quasi nessuno, ecco la soluzione: dillo in piemontese. Anche su questo occorrerebbe riflettere. Ma i problemi sono già tanti.

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