Masaccio Cacciata dei progenitori dall’Eden

Se c’è una nuova definizione di quella che un tempo era la rispettabilità, il prestigio o addirittura l’onorabilità, l’abbiamo affidata all’espressione “web reputation”, ossia quello che delle attività, aziende o enti filtra attraverso la rete e delinea il profilo di chi sarebbero; questo agli occhi di coloro che vedono come comunichiamo, cosa diciamo e che formule impieghiamo. Ciò accade nel rettangolo retroilluminato dei lap top, finestra e punto di fuga in cui oggi si concentra la visione del mondo.
Malgrado i tempi l’antico e rigido concetto di rispettabilità continua ad essere inseguito e desiderato da aziende grandi o piccole che siano. Se conquistarla è un percorso lungo e piuttosto arduo perderla è questione di un minuto, o di pochi, sventati minuti di un raccapricciante e sventurato video, scivolato via di mano e approdato sull’indistinta spiaggia del web.
Ed ecco che Banca Intesa San Paolo si ritrova nell’increscioso imbarazzo di essere caduta dalla web reputation al web embarassment o più crudelmente allo sputtanamento nazionale per motu proprio. L’accaduto risulta imperdonabile sotto ogni aspetto. Se un breve e grottesco video, in realtà più di uno, sfugge al controllo di una Banca, il correlato immediato è che anche i dati sensibili dei clienti possano, nello stesso modo, sgusciare fuori dai forzieri. 
In pratica si sono fatti rubare la reputazione.
La talpa, che è una costante di ogni rapina, è all’interno dell’azienda e per qualche insondabile ragione, forse troppi film di Vanzina, o i Talent, o anni trascorsi a bagno nel trash più indecoroso, lo hanno portato a ordire un colpo che nemmeno Assange, i Bassotti o Arsenio Lupin avrebbe mai organizzato, e ovviamente sotto il segno della motivazione.
Rubare quanto di buono in decine e decine di anni impiegati e personale hanno cercato faticosamente di fare. Obbligandoli a rendersi ridicoli, a trasformare il lavoro in circo, la professionalità in maschere da clown, farli canticchiare felici e pronunciare frasi stupide e ributtanti.
Un retropensiero induce a chiedersi se una direttrice di filiale può concedersi senza ritegno alla più trita indecenza, se il disdoro lessicale e sociale che promuove non investa qualcosa di più importante e se il coinvolgere altri in quest’impresa non sia al limite del reato del buon gusto.
A scanso di fraintesi le banche non sono una famiglia, come ripetuto in uno dei video, padri e madri i soldi li donano: non li prestano dietro interesse; nel porgerli ci sono i pensieri, i più nobili, e c’è cuore, che detta fiducia e speranza. Confondere i significati delle parole è una forma di circonvenzione, molto simile a quelle clausole impossibili da interpretare e sempre vessatorie, inserite in molti contratti bancari. 
Forse all’impavida soubrette deve essergli sfuggito, in tutti questi anni, la storia di Bartleby lo Scrivano, il suo “I would prefer not to”, il preferirei di no scritto da Melville per il mondo della finanza di Wall Street.
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Quello che offende maggiormente nel guardare questa pochade è constatare nelle facce il disagio l’impaccio e il senso di un obbligo increscioso in cui ognuno di noi avrebbe  potuto trovarsi. E’ possibile che sia stato questo ad incattivire i commenti in rete, la sensazione che una società sottoposta al peggio dello spettacolo possa arrivare a coinvolgerci tutti, ad  abbruttirci, a rendere spietatamente palese che per sopravvivere si debba non solo faticare ma anche cantare io ci sto. Uno dei più brutti karma immaginabili.
E adesso il bello, in questa tempesta perfetta, in questo case history da crisi dell’ufficio stampa, sapere come cercheranno di tirarsene fuori. 
Se attribuiranno colpe, se invece di tornare ad essere persone serie faranno altri video intonando un mea culpa, o chissà. La risposta alla perdita della buona reputazione è la vera sfida, lì le regole di mercato sono decisamente diverse.

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