Una versione più esaustiva di questo saggio è stata presentata al pubblico in occasione della Presentazione Patrimoni fotografici pubblici e privati: Quali sinergie e opportunità? presso Le Gallerie d’Italia, Torino il 30 maggio 2025 dalla scrivente. Courtesy Antonella Russo. (Video – Antonella Russo)
Se la maggior parte dei torinesi sa che la propria città è intimamente votata alla conoscenza piuttosto che alla finanza, pochi tra loro sono consapevoli che Torino detiene fra—i suoi tanti primati – quello di possedere il maggior numero di collezioni fotografiche pubbliche di pregio in Italia, una miniera di immagini preziose per la storia della fotografia non solo italiana, per gran parte ancora poco conosciute ai cittadini stessi.

1850, dagherrotipo di 17 x 21 cm ,Archivio Storico della Città di Torino, Collezione Simeom
Uno dei cimeli fotografici più avvincenti è il dagherrotipo l’elefante indiano di Torino ,1850 un un unicum di cui non conosciamo con certezza l’autore, forse il marchese Faustino Curlo e neanche la data d’ esecuzione è certa. Si tratta di un raro esemplare di dagherrotipia, quasi certamente l’unico esempio di dagherrotipia animale italiana, uno tra i pochi in Europa.
La lastra argentea mostra un pachiderma trattenuto a stento dai due custodi uno dei quali regge un cesto di vivande col braccio teso nell’atto di porger cibo all’animale ; alcune sfuocature intorno alla coda, indicano movimento e tradiscono l’insofferenza dell’animale.
L’elefante di Torino è stato oggetto di un’ampia narrativa e fa parte dei racconti, aneddoti e leggende torinesi come quella del mitico Toro Rosso, il toro ebbro che avrebbe salvato gli abitanti della città dalla furia di un drago malefico ed è ancora più popolare della magnifica statua in bronzo del cervo che si staglia sulla cupola centrale della Reggia di Stupinigi.
L’elefante a cui fu dato il nome Fritz, non fu l’unico pachiderma vissuto a Torino.
Un’incisione del 1780, raffigura il passeggio di un elefante nella cittadella nel 1774 e una stampa albuminata della seconda metà dell’Ottocento ritrae un elefantino africano legato a un albero in un angolo del Reale giardino zoologico di Torino.

Più di ogni altro animale, la storia di Fritz si intreccia con le vicende storiche del Regno di Sardegna e d’Italia .Questo esemplare di elefante asiatico o elefante maximus di circa 27 anni fu inviato dal vicerè dell’Egitto Mohamed Aly (1769-1849) [4] al Re Carlo Felice per contraccambiare il dono di cento pecore merinos dall’allevamento di Michele Benso di Cavour, doni di difficile ambientazione climatica com’è facile capire ; lo scambio fu favorito alla mediazione di Bernardino Drovetti (1776-1852), all’epoca console generale di Francia in Egitto, famoso archeologo che riunì una grandiosa raccolta di reperti e antichità che in parte donò nel 1824 al governo sardo e oggi nel fondo del Museo Egizio di Torino.
Come si accennava, la letteratura sull’elefante di Torino è molto ricca.
Ancor prima di arrivare al serraglio di Stupinigi l’elefante fa parlare di sé e venne già “immaginato” in una stampa che lo raffigura insieme a una giovane custode in costume orientale.

1827 Litografia di F. Festa 40,5 x 56 cm ASCTO, Collezione Simeom
In vista del suo arrivo, re Carlo Felice diede disposizioni di riadattare le scuderie e trasformarle in ricovero per l’animale e fece costruire un vasca, con scivolo per il suo bagno e un passaggio transennato . L’elefante arrivò alla menageria di Stupinigi nel giugno 1827 dopo un anno trascorso a Genova per acclimatarlo, e la sua custodia fu affidata a Stefano Novarino e Casimiro Carena come è riportato nella relazioni del capo serraglio Casimiro Roddi cui viene affidata, la gestione del pachiderma. Il direttore del Reale Museo di Zoologia dell’università di Torino Franco Andrea Bonelli (1784-1830) prescrisse una dieta speciale alquanto singolare :
“… 50 pani al giorno di 3 libre genovesi caduno equivalenti a poco più di rubbi piemontesi5, 24 cavoli Lombardi, o altro equivalente vegetabile, o invece 4 libbre di buttiro con 16 di riso cotto, zuccaro nell’acqua libbre 5, vino pinte una due al giorno, tabacco da fumare, e fumo di persone fumante”.
Questi ultimi alimenti destano il sospetto che a necessitare (e beneficiare) del tabacco da fumare ancorché il fumo di persone fumante, siano stati i guardiani più che l’animale .
In breve Fritz diventa l’animale più osservato, descritto e raccontato del serraglio reale e il più amato da Re Carlo Felice . Il capo serraglio ne riporta abitudini, predisposizioni che fanno nascere mille aneddoti, tra i tanti il più immaginativo è quello del dente : pare che un giorno del 1832 l’elefante abbia cercato di indicare al suo custode il suo dente fra la paglia del suo ricovero ,un molare che si sarebbe rotto e cavato da sé che fu prontamente donato a Re Carlo Alberto che appuntò nel suo diario :” L’éléphant de Stupinis, après avoitr fait son possible pendant plusier jours pour faire entendre à son gardien de lui tirer une dente qui le faisait souffrir, est parvenu à se la casser. C’est un beau morceau d’ivoire que l’on m’a apporté”
Fritz è popolare perché assomma in sé il fascino dell’Oriente e dell’Egitto misterioso : è l’Oriente alla corte sabauda, la quintessenza di un altrove a est dell’Occidente. Un Oriente dipinto da grandi artisti europei Vernet, Ingres come luogo di esoticità e sensualità, promesse di piaceri e visioni da Mille e una notte . Come sottolinea Edward Said a partire da fine Settecento dall’Oriente arrivano in Europa spezie, tessuti, animali ma anche materiali per opere di romanzieri.

René de Chateubriand, Gerard de Nerval e scrittori- fotografi, Maxime du Camp e Gustave Flaubert. Stuoli di fotografi che si recano in Egitto, Palestina, Siria ed esplorano tutto il medio Oriente Beato ma specialmente il luogo dove le grandi potenze europee andavano accaparrando domini, colonie e, attraverso scavi archeologici, preziosi reperti per i musei occidentali, impadronendosi di patrimoni di immagini e fotografie per rigenerare la cultura occidentale avviata verso un’inesorabile decadenza.

L’esotico Fritz viene così esposto periodicamente a Stupingi la domenica a una schiera di ammiratori che accorrevano da Torino e dintorni, per vederlo ballare e barrire: comportamenti che vengono registrati da scrupolosi zoologi dell’epoca : “… si compiace al suono della musica, al suono del corno ed al canto del suo custode, fa diverse gesta, cioè s’inginocchia, s’assiede, si corica, ruggisce di un voce alta e piena che par di tuono”.
Numerose, continue e sistematiche sono le documentazioni sulle abitudini e le predisposizioni di Fritz e, talvolta, eccedono l’osservazione scientifica per sfociare in un malcelato voyeurismo che traspare in descrizioni quali: “va sovente in erezione , il suo membro prende allora la direzione ordinaria sul davanti ed una lunghezza di circa 16 once e più. “
Lo spettacolo della star della menageria reale di Stupinigi trovava un prolungamento sebbene in un contesto meno sfarzoso e più ridotto nell’ambito di rappresentazioni di animali che si tenevano in concomitanza di feste popolari, rappresentazioni di ciarlatani , mangiatori di fuoco e giochi di forza, una sorta di panem et circensis animalia mostre temporanee di serragli ambulanti piccoli o medio grandi, per intrattenere il popolino, che si tenevano in città e capoluoghi di provincia che promettevano la vista di “straordinari sortimenti di animali stranieri “ o di “belve vive sorprendenti per bellezza e singolarità” bestie feroci, serpenti velenosi, uccelli variopinti per meravigliare e sorprendere il volgo.
A Torino , fino ai primi dell’Ottocento esposizioni temporanee di raccolte di animali esotici si svolgevano in Piazza Bodoni, nei pressi della stazione ferroviaria di Porta Nuova e al fondo di corso Oporto oggi Corso Matteotti.
Nella seconda metà di quel secolo la mostra del serraglio ambulante si trasforma in esposizione fissa alla zoo, e da avvenimento di costume, da spettacolo improvvisato per incantare e stupire la cittadinanza, si trasforma in luogo deputato alla “visione” dell’animalità che avviene in un contesto “naturale”, all’interno di un giardino privato che dovrebbe dissimulare un ambiente selvaggio propedeutico alla scoperta dell’animalità-

Nel Reale giardino zoologico di Torino, il primo istituito in Italia, confluirono a partire dal 1853 gli animali esotici delle menagerie reali dismesse di Stupinigi , Racconigi, Regia Mandria di Venaria. Lo zoo sorse in corso San Maurizio, ma qui la rappresentazione delle bestie feroci inoffensive e vinte diventa sempre più deludente e deprimente.

Anche il percorso visivo del giardino zoologico promuove un certo voyerismo, attività favorita dall’architettura trasparente delle gabbie delle belve, disegnate per esporre lo spettacolo degli animali esotici in tutta la sua immediatezza e permanenza. Le gabbie dello zoo di Torino, ricordano l’architettura della serra moderna, un modello reso famoso con il Crystal Palace, costruita a Londra nel 1851.
Questa grande serra tutta acciaio e moduli di vetro che ospitò la Prima Esposizione universale di Londra espose materie prime, macchine, manufatti articoli in vetro e ceramica così come oggetti d’arte riproducibili quali litografie, incisioni e fotografie dagherrotipi e calotipi di autori americani e inglesi, artefatti merci e la tecnologia più moderna . Le esposizioni universali, il moderno museo così come lo zoo nascono dallo spirito del progresso che anima tutto l’800 , sono luoghi che danno legittimità al guardare : alle fiere, al museo, allo zoo si va per guardare, per apprendere ma soprattutto per essere visti nell’atto di guardare e apprendere.
Anche gli Stati del Regno di Sardegna parteciparono al Crytstal Palace. Circa cento espositori rappresentarono l’industria del Regno di Sardegna e anche se non presentarono fotografie mostrarono materie prime, minerali, prodotti dell’industria chimica, tessuti raffinati ,sete, velluti ,articoli di gioielleria ed ebanisteria pregiata. Giuseppe Comba presentò un alce imbalsamato con un metodo da lui stesso ideato. Tra le altre esposero prodotti le ditte torinesi, Andrea Pirelli, Maurizio Griva, Giuseppe Rocca, i fratelli Sclopis e i fratelli Rey , antenati del fotografo pittorialista Guido Rey. Il comitato espositore era composto da Camillo Benso conte di Cavour, il cavalier Santa Rosa , il Senatore conte Nonus di Pollone, Luigi Bolmida , Giuseppe Guillot industriale della seta, Giorgio Sella, Ascanio Sobrero, tra gli altri. Cavour sollecitò gli espositori a donare oggetti di pregio al costituendo South Kensington Museum di Londra, che ispirò l’idea dell’ istituzione di un Museo Industriale di Torino.
Fritz però non conobbe mai lo zoo di Torino ma fu trasformato in trofeo della città .
Un giorno che il custode Carena volle forzarlo a uscire dal suo ricovero Fritz si ribellò . Dai rapporti degli zoologici si apprende che forse immalinconito, o “impazzito”, alla morte del cornac Novarino, iniziò a rifiutarsi di lasciare il suo ricovero e, infastidito dalle manovre brusche e certamente coercitive del custode, lo sospese per aria con la proboscide e lo scagliò ripetutamente al suolo dinnanzi al suo pubblico inorridito. Una scena che avrebbe di certo fatto esultare animalisti e gli spiriti ribelli.
Qualche anno dopo Vittorio Emanuele II, insofferente per la letargia e l’ “ingovernabilità” del pachiderma che rendevano le spese della manutenzione infruttuose, ne decise la soppressione che avvenne nel ricovero murato la sera dell’8 novembre 1852. L’elefante venne asfissiato con un procedimento i preparato da Filippo de Filippi (1814-1867) Professore di Zoologia dell’Università di Torino, per mezzo di una forte somministrazione di ossido di carbonio.
Anche in quest’occasione i dottori veterinari non mancarono di descrivere i dettagli , alquanto sadici, della soppressione : alla prima insufflazione del gas letale l’elefante iniziò a sollevare la proboscide in verticale fino a quando l’ambiente non fu completamente inondato e in seguito, l’animale si accasciò al suolo morto. Il Re Vittorio Emanuele II volle però donare a Fritz una seconda vita . Già nel 1830 aveva dato disposizioni per la sua imbalsamazione di cui si occupò un luminare della materia Francesco Comba, che provvide alla naturalizzazione delle spoglie [21] secondo le istruzioni di Franco Andrea Bonelli (1784-1830) direttore del Museo Zoologico.
L’elefante Fritz risorse dunque come cimelio nel Museo Zoologico di Torino, primo in Italia, dove fu esposto insieme ad altri animali di pregio della menagerie reale che, con le loro abitudini , avevano permesso ricerche e studi di biologia e anatomia animale e in seguito l’istituzione del primo dipartimento di Medicina Veterinaria del nostro paese. Le spoglie naturalizzate dell’elefante più popolare e amato di Torino sono oggi in mostra permanente al Museo Regionale di Scienze Naturali, Torino, è qui che ritroviamo il nostro Fritz , esposto in bella vista.

Il rifiuto di mostrarsi, di intrattenere e affascinare la folla dei suoi ammiratori segnò la sua fine. Come abbiamo imparato da Guy Debord, “lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine”, un’immagine immateriale come l’apparizione in pubblico, il mostrarsi obbediente e docile ai comandi , addomesticato, disponibile produce un valore per la società spettacolare.
E siccome le sue esposizioni domenicali non erano più spendibili come immagine di sfarzo e magnanimità reale, il povero Fritz finì museificato, trasformato in reperto scientifico a servizio dell’evoluzionismo che governa il moderno museo di scienze naturali, un trofeo di magnificenza del passato ma allo stesso tempo un monito permanente per spiriti ribelli.
E’ solo sulla superficie della lastra argentea del dagherrotipo, un raro gioiello custodito fra le stampe dell’archivio comunale di Torino, che riviviamo qui e ora, la storia dell’elefante Fritz che morì pazzo a Torino.
Antonella Russo
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