Al MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino – nulla è lasciato al caso: ogni oggetto esposto ha un significato preciso, una ragion d’essere nella posizione che occupa e nel piano del palazzo in cui si trova. Una cura per il dettaglio che sembra riflettere quella stessa attenzione minuziosa propria dell’arte di cui il museo è custode.

E non fanno eccezione neppure le mostre temporanee, pensate come tappe coerenti di un racconto più ampio.

Così, a quattro mesi dall’apertura di “Hanauri. Il Giappone dei venditori di fiori” – la cui chiusura è prevista il 4 maggio 2025 – il MAO inaugura una nuova esposizione: “Haori. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone”, visitabile fino al 7 settembre 2025. La prima, ha introdotto ad uno scorcio di vita giapponese di metà Ottocento, attraverso fotografie d’epoca, lacche, kakemono (dipinti o calligrafie verticali su seta, cotone o carta) e kimono – questi ultimi provenienti dalle collezioni di Palazzo Madama e del MAO di Venezia. La mostra odierna prosegue nel Giappone del primo Novecento, raccontato attraverso l’abbigliamento maschile di quel periodo. Il percorso si dipana attraverso circa cinquanta vesti, tra haori (giacche sovra-kimono maschili) e juban (sotto-kimono maschili) della collezione Manavello, sapientemente disposti a creare un dialogo plurimo e stratificato anche grazie alla presenza di alcune installazioni di artisti contemporanei, che non si limitano a corredare l’esposizione ma la attivano: come un sasso gettato in uno specchio d’acqua – e il pavimento riflettente dell’allestimento ne amplifica la suggestione – ne increspano la superficie apparentemente imperturbabile, innescando onde concentriche di senso tra passato e presente.

A cura di Silvia Vesco dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, Lydia Manavello, You Mi dell’Università di Kassel, in collaborazione con il direttore del MAO Davide Quadrio e la curatrice Anna Musini, con l’assistenza di Francesca Corrias, “Haori” è molto più di un’esposizione tessile. È uno scarto narrativo, un ribaltamento di prospettiva sull’immaginario che continua ad essere proiettato sul Giappone. Se da un lato i tagli formali dei capi esposti parlano ancora un linguaggio intriso di raffinatezza formale e senso dell’armonia – tratti che hanno nutrito la fascinazione europea per l’Asia orientale fin dall’Ottocento – è nel rovescio di queste vesti che la mostra compie il suo gesto più radicale. Lontana dalle letture romantiche e orientaliste, “Haori” restituisce l’immagine di un Giappone immerso in tensioni politiche e sociali, in piena modernizzazione, già proiettato verso una visione imperialista del proprio futuro.

Un aspetto della Storia raramente esplorato nelle narrazioni museali italiane, che qui trova espressione non soltanto nei materiali d’epoca, ma anche e soprattutto nel modo in cui questi indumenti raccontano – silenziosamente, ma con chiarezza – le ideologie, i timori e le ambizioni di un Paese in transizione. A emergere è una visione maschile e “altra”, che sfida l’iconografia dominante del Giappone come luogo di grazia e ritualità: le giacche e i sotto-kimono si fanno superfici parlanti, trame di senso che raccontano di propaganda e orgoglio nazionale. Tale lettura apre a riflessioni più ampie sul modo in cui costruiamo le immagini dell’Altro, oltre a suggerire parallelismi non forzati con l’attualità: le relazioni geopolitiche fra Giappone, Cina e Corea, le eredità culturali di un passato coloniale non ancora del tutto rielaborato, la costruzione identitaria veicolata anche attraverso il costume e la cultura visiva. In filigrana, affiorano interrogativi che toccano anche il presente più prossimo: territori contesi, ambizioni imperiali riemerse, narrazioni costruite per legittimare occupazioni e proiezioni di potere. Come allora, anche oggi, la propaganda scivola nei dettagli meno appariscenti, lì dove la Storia pare tacere, ma in realtà sussurra.

In questo senso, la mostra si propone come uno strumento critico che, pur partendo da oggetti del quotidiano, sollecita interrogativi sul nostro sguardo, sulle semplificazioni a cui ricorriamo per orientare l’alterità e sulle responsabilità della funzione museale nel mantenere o decostruire certi stereotipi.

Jessica Matarrese