Le grandi sale da concerto europee hanno assunto negli ultimi anni un ruolo che supera la propria funzione. Oltre all’acustica perfetta, la disposizione dei posti a sedere, la bellezza, l’agio sono divenute simboli architettonici imponenti, riconoscibili di giorno per le forme inconsuete immaginate dalla fantasia degli architetti e di notte divengono scatole di luce preziosa.
Alcune di esse hanno modificato il carattere dei luoghi in cui sono sorte fino a toccare “l’effetto Bilbao”, dove l’avveniristico museo Guggenheim progettato dal canadese Frank Gehry, ha mutato le sorti della città. Curiosità, turismo, lavoro, economia come conseguenza alla nascita di un edificio dal forte richiamo.
Non dissimile l’impatto, relativo alla musica, avuto con l’Harpa a Reykjavík, definita dalla rivista musicale Gramophone come migliore sala musicale o la famigerata Elbphilharmonie di Amburgo, frutto del lavoro dello studio studio architettonico Herzog and De Meuron o la norvegese Oslo Opera House commissionata al prestigioso studio Snøhetta. Entrate nell’immaginario collettivo e nella strategie del turismo.

Ton Koopman
Completamente diverso il caso torinese.
Qui, le sale da concerto per quanto prestigiose e apprezzate da musicisti e direttori di fama, restano nascoste, escluse da qualsivoglia skyline, ambiscono alla riservatezza, preferiscono essere scoperte piuttosto che imporsi. Si direbbe speculari alle tipiche inclinazioni dei cittadini, riservati e poco appariscenti. Tra queste, con i suoi 1900 posti c’è l’Auditorium Giovanni Agnelli pensato da Renzo Piano in quella che fu la fabbrica più famosa d’Italia il Lingotto.
Per accedervi si discende per dieci metri sotto il livello della grande hall, attraverso scale non troppo ripide, fino ad un enorme navata foderata di legno color tè, un caldo ventre di balena in ciliegio, una cattedrale laica per celebrare il rito delle musica. L’altra sera l’auditorium ha accolto per la stagione di Lingotto Musica l’Amsterdam Baroque Orchestra diretta da Ton Koopman con in programma i 6 Concerti Branderburghesi BWV 1046-1051 scritti da Bach tra il 1718 e il 1721.
Presente nella doppia veste di direttore e clavicembalista Koopman è un ritorno, a distanza di quasi trent’anni a Torino e il suo nome è indissolubilmente legato alla formazione da lui fondata nel 1979 per approfondire il repertorio barocco con i più preziosi strumenti d’epoca esistenti in Europa. Figura chiave nel revival dell’early music, Koopman spegne ottanta candeline rileggendo i Sei Concerti per diversi strumenti passati alla storia con il titolo di Brandeburghesi: uno scrigno di tesori preziosi che hanno percorso i secoli attraverso le sale da concerto di tutto il mondo, fino a valicare il sistema solare con una registrazione lanciata nello spazio sulle sonde Voyager nel 1977.
I concerti furono dedicati nel 1724 al margravio Cristiano Ludovico di Brandeburgo, che probabilmente li fece archiviare senza mai farli eseguire. I Concerti Brandeburghesi rappresentano un capolavoro originalissimo di Bach nell’arte del Concerto, un vero e proprio catalogo che riassume stili, forme e influenze in voga all’epoca. Ciascuno è scritto per una combinazione strumentale diversa: la straordinaria varietà di soluzioni creative che va dal contrappunto alla linearità di stampo vocale, senza dimenticare la lezione di compositori italiani come Corelli e Vivaldi, fanno di queste sei celebri pagine bachiane un florilegio unico nella storia della musica.

Il cambio di strumentazione, musicisti e solisti durante i vari concerti, il calore del suono, il clavicembalo antichissimo, la scelta in scaletta dei concerti, il sentimento che lega la composizione all’esecuzione hanno offerto un momento di coinvolgimento, di piacere e di bellezza effusa e rara. L’allegria e la disinvoltura di Koopman, in simbiosi con il cembalo e del suo accordatore, hanno edificato un alveo protettivo ai suoni terrificanti che il mondo produce. Il ritorno spaventoso della parola guerra, la follia che sembra tornata ad abitare le menti di alcuni, il timore che arriva a toccare chiunque; a tutto questo la musica ha dischiuso il suo segreto, il suo abbraccio protettivo e quel vero in cui si cerca conforto.
Il secolo di Bach è stato altresì il secolo di Immanuel Kant, il filosofo tedesco che scrisse l’opera filosofico-politica Per la pace perpetua. Mai come oggi occorrerebbe rileggerla.