Jamie Miller, tredicenne inglese di Wakefield, West Yorkshire. 

Jamie Miller, principale protagonista della miniserie Netflix Adolescence. 

Jamie Miller, arrestato perché accusato dell’omicidio di Katie Leonard. 

Jamie Miller, un ragazzo problematico, con una crisi d’identità non capita, non comunicata. Sospesa.

Jamie Miller: vittima e anche carnefice.

La miniserie Netflix Adolescence non è passata inosservata. Discussa o celebrata, lascia l’amaro in bocca. Non è soltanto la storia in sé, sviluppata nei quattro racconti/sequenze che intriga lo spettatore, ma le emozioni che suscita, le paure che provoca, l’inadeguatezza individuale che paralizza. Come un film giallo la si guarda tutta d’un fiato.

Ogni episodio diventa il preludio allo svelamento di un arcano, che rimarrà sempre in ombra. Ogni scoperta raggiunta non porterà mai alla verità. Tanti stimoli, tante riflessioni, pochi propositi, poche soluzioni.

La miniserie racconta di un delitto assurdo, dovuto alla superficialità relazionale degli adolescenti. Attraverso quattro angolature diverse (social, scuola, salute e famiglia) si cerca di contestualizzare e capire il movente dell’omicidio. Jamie diventa “un problema”, ma non è “il problema”. Il problema reale è la società, definita dal filosofo coreano Byung-chul Hansocietà della prestazione”. Jamie diventa aggressivo, perché è spersonalizzato e respinto, giudicato e deriso. Un caso patologico? No: un isolamento sociale involontario, un disagio giovanile irrisolto.  

Complici e causa di questa preoccupante situazione sono i social media, che modificano – secondo il filosofo Byung-chul Han – “il nostro comportamento, la nostra percezione, la nostra sensibilità, il nostro pensiero, il nostro vivere insieme”. Non hanno nulla di “sociale”. Lo capisce benissimo l’ispettore Luke Bascombe quando spera di introdursi nel “mondo vuoto” dei giovani studenti. Jamie però cerca sempre e comunque di essere coinvolto, anche quando viene accusato pubblicamente da Katie di essere un incel (involuntary celibate: celibe involontario), uno sfigato che non piace alle ragazze, che non ha successo, che si mette in mostra pur di essere scelto, cercato, ammirato. E’ qui che scatta la ribellione e la rabbia, che porteranno Jamie a sviluppare una patologia narcisistica spettrale. Sarà la sua rovina. Questi adolescenti, abitanti digitali, sono “una massa senza spiritualità” e, continua Byung-chul Han, “sono individui isolati”.

Non è un caso, infatti, che gli studenti della scuola frequentata da Jamie e Katie arrivano persino a ridicolizzare la tragedia. Nessuna pietà, nessun dolore, nessuna rabbia. Solo messinscena e spettacolo, invadenza e indifferenza. La scuola appare come una istituzione incapace di educare e guidare i ragazzi. Regna quasi l’anarchia. Professori derisi e minacciati, studenti impertinenti ed arroganti, spesso bulli e violenti. Un ambiente compromesso e indisciplinato, che rispecchia chiaramente il contesto strutturalmente labile e complesso della comunità civile. Ciò che resta allo spettatore è l’immagine di una società senza rispetto e “una società senza rispetto”, afferma ancora il filosofo coreano, “sfocia in una società del sensazionalismo”. Una società nella quale non si sa vivere insieme, perché non si sa condividere il bene.

Ma l’ambiente maggiormente inquietante è la struttura psichiatrica minorile nella quale Jamie si trova. Il terzo episodio è crudo, insidioso, allarmante. La psicologa Briony Ariston vuole capire, deve capire le cause scatenanti che hanno portato Jamie ad uccidere Katie. Le domande che pone al ragazzo solitamente rimangono sospese e le risposte che riceve spesso sono distorte. Jamie vive nel suo mondo e non ammette nessuna interferenza. Il suo intento è chiaro: essere accettato. Colpisce la sua eccessiva autoreferenzialità che lo fa annegare in se stesso, lo logora, lo esaurisce. Non a caso si manifestano continui scatti di violenza e aggressività. Ci sono momenti nei quali la psicologa rimane in silenzio e non sa che cosa dire. Forse perché non serve parlare. Il disagio di Jamie è evidente: è insicuro, ma minimizza il mondo reale per sentirsi migliore, più bello, più vivo. E in questo suo stato narcisistico, in questa sua intenzionalità esibizionistica svaluta il dolore, disprezza la sofferenza e non riconosce la colpa. Esausta, la psicologa non lo aiuta più. Interrompe le sedute e Jamie rimane solo.

L’ultimo episodio non sarà mai l’ultimo. Dolore e sensi di colpa si mescolano ai rimpianti, ai ricordi. I genitori di Jamie, Eddie e Manda si renderanno conto del vuoto emotivo del figlio quando ormai è già tardi. Noncuranza? Indifferenza? Ignoranza? No. Semplicemente inconsapevolezza, distanza. Distanza da un mondo “altro”, da una cultura e mentalità digitale tossica e distruttiva dove regna non la libertà ma la costrizione, non la socialità ma l’isolamento, non la verità ma l’illusione. Il padre capisce che qualcuno ha sbagliato, che qualcosa è andato storto, che la società non è la casa, che la casa non è la famiglia, che la famiglia non è la scuola, che la scuola non è la vita. La moglie Manda, invece, interviene poco o non sa esprimere il proprio stato d’animo. E’un personaggio assente. Vive nell’ombra, anzi, è lei stessa un’ombra. Non viene nominata quasi mai e rare volte supporta il marito e la figlia Lisa. Jamie non la nomina, non la cerca, non chiede mai di lei. Forse questa mancanza di legame affettivo con la madre è dovuta alla sua misoginia mediatica. 

Ogni personaggio della miniserie comunica uno stato interiore sofferente e indefinito, difficile da capire o giustificare. Nel corso della storia tutti diventeranno vittime e carnefici.

Il finale è crudo. Non è una passeggiata piacevole, ma un viaggio difficoltoso, enigmatico, pieno di interruzioni, di baratri e di paure. Rimane l’amaro in bocca. Forse è questo l’intento degli autori Stephen Graham e Jack Thorne: parlare del disagio degli “abitanti digitali”, che vengono distrutti ed annientati nella propria individualità.  Nessuno di noi è preparato ad affrontare il vuoto identitario degli adolescenti, che si alimenta di sottocultura prodotta da ideali effimeri, mancanza di valori e di progetti, di studio e di passioni.

Sono (come tanti adulti!) soggetti performanti, persone cioè che si nutrono solo di selfie e di like, esposti allo sguardo degli altri per essere condivisi, per ricevere consensi. E’ un problema enorme, perché la comunicazione eccessiva e maniacale col proprio cellulare genera uno stato affettivo fragile. Questo atteggiamento è davvero preoccupante; crea il vuoto sociale e propone un modello umano cultuale, narcisistico, irreale e fallace.

Si potenzia così la propria immagine, ma “l’ego che va rafforzandosi – afferma Byung-chul Han – non riesce ad ascoltare poiché sente parlare, ovunque, solo se stesso”

E’ un rischio insidioso, da non sottovalutare.

Maria Giovanna Iannizzi