GazzettaTorino, ha deciso di raccogliere opinioni, pareri, punti di vista, sul futuro della città, rivolgendo sei domande, sempre le stesse, a persone impegnate a diverso titolo nella società, nella politica e nella cultura, su un tema rilevante del dibattito pubblico, a nostro avviso trascurato: la Torino di domani.
La città appare in questo momento, come si suol dire “sotto lo zelo di Abramo”, ossia pronta ad essere sacrificata senza sapere bene per chi o per che cosa. E noi, come Isacco, vorremmo che alla fine si salvasse.
Roberto Repole è sacerdote della diocesi di Torino e docente di Teologia sistematica presso la sezione di Torino della Facoltà Teologica, lo ringraziamo per la partecipazione a Torino Domani.

Torino Domani

Don Roberto Repole

Dopo un viaggio all’estero, al rientro la città e talvolta l’Italia tutta appare più piccola, bloccata, come fosse imprigionata dentro ad un incantesimo cattivo. Prova anche lei questa sensazione, e se la risposta è si da cosa reputa sia dettato questo sentimento.
Non saprei, francamente, se questa sensazione mi venga proprio al ritorno dall’estero (almeno se si tratta di grandi città del nostro mondo occidentale, alla fine spesso più simili di quel che sembrerebbe): è certo, però, che qualche volta avverto di abitare un Paese ed una città che stentano a proiettarsi in avanti, che sembrano bloccati e come ripiegati su se stessi. Mi viene da pensare che uno degli effetti della fine delle grandi ideologie e della globalizzazione, ovvero il fatto di percepire il futuro più in termini di paura che di attrazione, sia proprio di casa nel nostro Paese e nella nostra città. Basterebbe considerare la tendenza – che non finisce di impressionarmi – di guardare ai giovani più come ad un problema da affrontare che non a una incredibile risorsa del presente e per il futuro.
Sarei però disonesto se non dicessi di vedere anche diversi segni di apertura e di speranza, magari scomposti ma certo presenti. Registro sia a Torino sia in Italia una grande generosità, che si manifesta ad esempio nelle grandi esperienze e strutture di volontariato che ancora sussistono e che sono vive. Anche la generazione dei più giovani non è solo fatta di “sdraiaiti”. C’è tra loro  tanta generosità, tanta apertura e solidarietà che costituiscono un segno di speranza per il futuro. Persino ciò che ora va sotto il nome di emergente “populismo” credo che meriterebbe una attenzione culturale più profonda di quel che generalmente si concede, specie in un mondo mediatico spesso superficiale. Pur con tutte le contraddizioni, le incongruenze e le forze nichiliste da cui è attraversato, non si esprime in esso anche una “forza di resistenza” allo status quo, che è ancora indice di vita e di “speranza”? Forse insieme al “marcio” c’è da essere attenti a non perdersi i germi di bene o anche solo il grido di chi fatica a vivere.
Il dibattito sul futuro di Torino, su cosa voglia divenire, cosa ambisca a rappresentare, quale tipo di identità desideri per se ed i suoi abitanti sembra inabissarsi e virare ad un pensiero che verte solo sui conti, sui debiti, sulle spese; una grande liquidazione dei progetti e dei sogni. Come siamo arrivati a questo?
Questo è un punto nevralgico, direttamente connesso a quanto provavo ad esprimere poc’anzi. C’è come l’impressione che la dimensione economica si sia “mangiato” tutto. Mi pare un effetto ultimo della secolarizzazione. Alcuni decenni fa il sociologo Luhmann diceva che il nostro mondo era secolarizzato perché le diverse sfere (quella della politica, della scienza, dell’economia, dell’arte…) erano diventate autonome rispetto al “mondo religioso”. Nel tempo è avvenuto qualcosa di ancora più profondo: la dimensione economica – interpretata secondo canoni neo-liberisti – è diventata il tutto. E’ come se non fossimo più capaci di guardarci, come uomini e come società, se non nello specchio dell’economico e, dunque dell’utile e di ciò che può portare profitto. Ciò porta, giocoforza, alla esclusione di una grande fetta di umanità e, spesso, alla desertificazione umana della parte restante. Non vorrei essere eccessivo, ma credo che ci troviamo di fronte ad una forma di idolatria, come ricorda papa Francesco. E’ come se riempissimo il vuoto di senso che si è creato per l’assenza di “grandi prospettive” per le quali vivere e anche morire, mettendo davanti l’unico “dio” che ancora riconosciamo, quello del denaro e del profitto. In questo senso dicevo che è da vedere anche una forza di resistenza in quanti oggi tentano di esprimere il loro disappunto, la loro scontentezza. E’ già qualcosa, anche se va incanalata in termini propositivi e costruttivi. Così come è da riconoscere che laddove c’è ancora gente generosa, che dona tempo, energie, attenzioni, cura… senza calcolare, si è alle prese con qualcosa che fa ben sperare. Anche nella nostra Torino.
Cosa sarebbe opportuno fare per ripristinare fiducia, grinta, carattere, alla città ? Trovare un modello da seguire, che so Amsterdam o Londra, per dinamismo e opportunità, o dobbiamo individuare e inventarci un’altra strada ?
Certamente guardare ad altre città potrebbe fare del bene. Si potrebbe imparare ad utilizzare al meglio le nostre risorse, non solo sul versante economico, ma per assumere una identità e per favorire una socializzazione più riuscita. Poco per volta, si è già cominciato in questi anni, sia in Torino sia nella cintura, a prendere in considerazione le grandi ricchezze culturali di cui si dispone; ma molto rimane ancora da fare e, in questo, altre città possono davvero rappresentare un modello. Poi, però, occorrerebbe andare oltre. Sarebbe necessario ricominciare a pensare alla nostra città non a partire dal centro e dai benestanti, ma dalle periferie e dagli esclusi. Solo in una integrazione sempre più universale si potrà essere una città ancora umana. E per questo non c’è solo da assumere un modello dall’esterno, c’è da ripensare profondamente al nostro essere uomini, a che cosa rappresenta un valore, che cosa ci identifica come città e che cosa vorremmo trasmettere alle nuove generazioni. Insomma, c’è da fare un profondo lavoro culturale per il quale non bastano gli “eventi”, che si sono moltiplicati all’infinito in questi dieci anni, non sempre accompagnati però da una attenzione alla qualità. Su questo punto occorrerebbe forse liberarsi dalla “ossessione mediatica” e dalla ricerca sempre e comunque del consenso per cercare con maggiore libertà che cosa veramente abbia valore e sostanza.
La politica possiede ancora la capacità di coinvolgere e costruire un’appartenenza, ha perduto la pietra focaia che accende passioni o, semplicemente ha smesso di usarla? 
La politica è in crisi, come è facile constatare, e a tanti livelli. Un poco perché ci sono sfide portate dalla globalizzazione  che richiederebbero un potere decisionale ugualmente ampio, al cospetto di una politica che è rimasta invece ancora “regionale”; un poco perché è in crisi la democrazia, diventata sinonimo di possibilità di ricerca di libertà e di diritti solo più individuali. Dire che siamo in democrazia ha spesso il senso, infatti, di affermare semplicemente che ognuno può fare quello che vuole e ciascuno ha diritto a tutto quello che ritiene e “sente”. Peccato che, così facendo, si sfalda proprio una società, quel convivere insieme che la politica dovrebbe invece garantire e far crescere.
La democrazia ha bisogno anche di responsabilità e di solidarietà reciproca per vivere. Maritain diceva già diversi  decenni fa e in tempi non sospetti che senza un afflato evangelico la democrazia non poteva sussistere. Oggi Gauchet in altro modo ricorda qualcosa di analogo: le nostre democrazie sono in crisi perchè hanno fatto a pezzi qualunque valore “sacro”. Vedere e prendere consapevolezza di questo, ovvero che c’è bisogno di qualche valore comune e di qualche prospettiva condivisa di ciò che è l’umano e di quel che è la società capace di accendere una solidarietà e una responsabilità di tutti e di ciascuno, sarebbe un primo passo fondamentale e indispensabile. Perché senza questa conscienza vedo difficile se non impossibile un cambio di passo che non vada in direzioni antidemocratiche. E questo, qualunque sia la direzione presa, lo giudico un grande e grave impoverimento della nostra stessa umanità.
A cosa attribuisce il fatto e la responsabilità di non vedere e sottostimare le cose meritevoli e buone del nostro paese? 
Per quanto paradossale possa sembrare, al nostro provincialismo. Siamo a volte così succubi dei luoghi comuni o dei miti di “modernizzazione” che in genere provengono da altri mondi, da non vedere più tutto il bello della nostra cultura. Penso ad esempio, al fatto che apparteniamo ad una società per cui il pensiero, anche gratuito e non solo tecnico, ha rappresentato una fonte grandiosa di civilizzazione. Eppure, troppo spesso quando pensiamo al futuro o quando progettiamo, tutto ci sembra di dover custodire e coltivare meno che questo! O penso al fatto che viviamo in una società in cui ci siamo dati strumenti molto intelligenti e generosi di intervento pubblico perchè alcuni valori come l’istruzione, la cura nelle malattie, la pensione… possano essere garantiti a tutti. Eppure, tante volte siamo così provinciali da non riconoscere il bello che abbiamo e da ritenere che il diventare “moderni” passi per la cancellazione o il ridimensionamento di tutto questo. Il vero punto è che per voler essere “moderni” e, dunque, “meno antichi” sarebbe necessario sapere verso quale ideale di uomo e di società si intenda camminare. Ma non è proprio questo ciò di cui non si parla né si discute mai? Non è questo che diamo per presupposto senza che realmente lo sia?
C’è un libro, un film, o uno spettacolo teatrale, che a suo dire rappresenti al meglio il nostro tempo e prefiguri un indizio interessante per il domani ?
Per citare un torinese (Alessandro Baricco) direi  il libro “Novecento” e il film che da esso è stato tratto, “La leggenda del pianista sull’Oceano”. Il pianista, protagonista del libro, dice di voler suonare solo gli 88 tasti del pianoforte perchè su un pianoforte dai tasti infiniti non c’è musica che si possa suonare: sarebbe come scendere dalla nave in cui è nato e cresciuto, per affrontare una città dalle mille strade e dalle molte donne… Lì non c’è strada che potrebbe imboccare o donna che potrebbe scegliere. Ecco, mi pare una tesi metafisica che esprime qualcosa del nostro mondo: il panico dell’infinito, che ci paralizza. Una paralisi a cui qualche volta ci costringiamo da soli, perchè ci siamo obbligati a suonare solo 88 tasti (a volte disperatamente solo uno, quello economico!) e a vivere su una piccola nave, fancendone l’unico mondo possibile.
Mi piacerebbe e ho fiducia in un finale diverso: quello in cui si prenda il coraggio di scendere dalla nave per vedere che la vita è ben altro, è molto altro; quello in cui si suoni un pianoforte senza limiti di tasti, o forse – perché no? -,  quello in cui si senta di far parte di una orchestra, che può suonare ben altra musica di quella, pur bella, del solo pianoforte.

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