soqquadro italiano1Claudio, cos’è Soqquadro italiano?
Soqquadro italiano non è un ensemble musicale, direi che è tutto ciò che un ensemble musicale non è. Mi spiego. Soqquadro italiano è un luogo aperto, uno spazio nel quale personalità diverse convergono per mettere in comune esperienze e provenienze artistiche e culturali. Quando ci incontriamo per lavorare a un progetto ci accostiamo come se non ci conoscessimo. Da lì si innesca un confronto multiforme, pronto a differenti tipi di evoluzione. Poi chiaramente il gruppo ha un suo nocciolo duro e un suo profilo specifico, che esula però da ogni restrizione classificatrice.
Puoi farci un esempio?
Un esempio lampante di cosa sia Soqquadro italiano lo racconta la storia della Tarantella de li denari, brano nato da un pezzo per chitarra di Santiago de Murcia, smontato delle variazioni e ricostruito su un’armonizzazione arabeggiante, su cui si è andato innestando un testo di Giulio Cesare Croce. Tutto ha finito poi per rovesciarsi in una tarantella di Gaspare Sanz ibridata con un’improvvisazione di sax. Questo è quello che è Soqquadro, mescolare elementi senza farsi condizionare dalle loro rispettive lingue d’origine.
 Un’estetica dello spaesamento, del soqquadro, parola che pare creare piccole scosse elettriche col solo inusitato accostamento di due rare e vispe “q”. Sul vostro sito si leggono frasi cruciali: «Da Monteverdi a Mina è un concerto di grande visionarietà; potremmo definirlo come un “concerto alla bastarda”, un continuo passaggio, un dialogo tra il mondo di Mina e quello di Monteverdi». Cosa dobbiamo aspettarci da un programma tagliato così?
Alla domanda rispondo con una domanda. Cos’era buona parte della musica nel Seicento? Era musica “popolare”, musica di consumo, tratto caratteristico questo che possiamo ripercorrere agilmente in buona parte del repertorio della nostra musica degli anni Sessanta. Noi giochiamo a cercare punti di congiunzione, quelli che consentono ad esempio a Già risi del mio mal di Kapsberger di mutarsi ne Il cielo in una stanza di Gino Paoli, per poi incontrare di nuovo l’antico con Monteverdi e Damigella tutta bella. Cerchiamo una terza via, una strada cioè che non si offra come ipotesi alternativa all’approccio filologico, né tenti spettacolarizzazioni inutili e vuote.
Cos’è più facile, rintracciare il Seicento negli anni Sessanta o gli anni Sessanta nel Seicento?
Direi entrambe le cose. Proprio mentre si cammina per Roma si percepisce sotto i piedi il pulsare dei secoli, il frutto di una stratificazione continua. «Nulla si crea e nulla si distrugge» è una legge che vale anche per l’arte, e la stratificazione, intesa in senso lato, è uno dei punti di forza dell’italianità. Durante gli studi tutti ci parlano dell’arte italiana, ma pochi sanno dirci cosa essa realmente sia, cos’abbia di riconoscibile, di così inconfondibilmente italiano. Per me la chiave è riposta in questa stratificazione che noi riportiamo alla luce, questo ingrediente che consente un rapporto osmotico fra i livelli, rapporto mediato da una fortissima, peninsulare immediatezza.
Parlando di italianità, come reagisce il pubblico italiano di fronte a un progetto come questo? Sappiamo che paradossalmente siamo un popolo un po’ restio ad accettare ciò che travalica i confini delle nostre sicurezze.
Non è così. La reazione del pubblico italiano è assai più sorprendente di quella, ad esempio, del pubblico nord-europeo, con il quale ci siamo già confrontati.  È vero che il Nord Europa è più abituato, più “educato” a operazioni di questo genere. Gli italiani, forse proprio perché riconoscono nel proprio codice genetico l’appartenenza a questo tipo di dimensione espressiva, reagiscono però con sorprendente calore. Certo, ci possono sempre essere i detrattori di un progetto, tuttavia nella nostra esperienza abbiamo ottenuto riscontri davvero significativi. È accaduto ad esempio a Cremona, la patria di Monteverdi e di Mina: il teatro era gremito e il pubblico ci ha chiesto bis a dismisura. Come pure a Ravenna, dove il Festival è un vero tempio della musica. Capita che qualcuno si accosti al concerto magari solo perché attirato dal nome di Mina ed esca poi canticchiando Kapsberger. È questo quello che noi vogliamo che accada. Il pubblico straniero è interessato e affascinato dai nostri progetti, però la comunicazione è più complessa. Spesso l’italianità è percepita per stereotipi, non ci si aspetta quel languore che invade le pagine delle nostre musiche. Nel brio e nella gioia si nasconde comunque un velo di tristezza, quella delle grandi variazioni sul vuoto del Barocco, dello Stradella del «Si salvi chi può», ma pure della notte malinconica della Via Veneto degli anni Sessanta.
soqquadro italiano_E il pubblico poi vi tempesta di domande, come sto facendo io?
Ci chiedono i cd. Dove sono i cd? Ma tutti oggi fanno cd! Noi abbiamo aspettato. Vogliamo che i nostri progetti siano il tramite per ridisegnare un rapporto nuovo col pubblico, facendo sì che operazioni come questa ottengano il posto che meritano, che siano interpretate per quello che sono, per il ruolo che hanno. Questo ruolo si fonda in primo luogo su un gioco di comunicazione intensa. In fondo i nostri spettacoli non ti portano a “fare domande”, ti spingono a “farti domande”, a farle a te stesso, perché sono esperienze intime, viaggi nella dimensione profonda di sé. Poi c’è assoluta libertà di scegliere ciò che ci piace e ciò che non ci piace, e assoluta libertà di discuterne. Ma rimane il fatto che questa è musica che va vissuta. Il pubblico percepisce questo messaggio, lo percepisce epidermicamente. Quello che facciamo non è “nuovo”, perché in fondo tutto è nuovo e tutto è vecchio. Il punto è fare le cose con sincerità, cercare di trasmettere un’idea estetica ed espressiva, che nel nostro caso mira a riconsegnare alla musica antica la propria natura: quella cioè di una musica intesa come mezzo e non come fine, quasi in una sorta di filologia della sua funzione sociale, al di là delle categorie.
È teatralità pura …
Sì, in tutto ciò l’aspetto teatrale è fondamentale, intendendo la teatralità appunto come scambio comunicativo, come la via per tracciare il ponte fra chi è sul palco e chi è davanti. I nostri progetti vanno sempre più in questa direzione, che si allontana dunque da ogni tipo di autoreferenzialità. Grotowski diceva che il teatro si fa con due cose, con uno che fa e uno che ascolta. Il teatro c’è già laddove vi siano un esecutore e un ascoltatore; poi che in mezzo intervengano la danza, la musica e la parola poco importa: sono i mattoni che costruiscono un messaggio. Questo tutto-integrato in fondo non è estraneo al Seicento, agli albori del melodramma, di quel melodramma che, guarda caso, avrebbe potuto essere davvero un’arma infallibile per la costruzione politica e sociale dell’identità nazionale.
E la musica di oggi ha un ruolo nei vostri disegni?
Per ora ci siamo fermati agli anni Sessanta, cerchiamo qualcosa che sappia di repertorio. Ma nulla esclude sviluppi inaspettati.
Qualche anticipazione sui vostri progetti futuri?
Un progetto “sacro” fatto di grandi ibridazioni. E poi già a febbraio faremo …

 A cura di Diego Procoli
 
In concerto sabato 22 marzo ore 21 a Palazzo Barolo, rassegna Regie Sinfonie –  Musici di Santa Pelagia
 
 

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