Murales ?
È comune, anzi, più o meno la regola, non usare le forme plurali delle parole straniere in italiano. C’è una curiosa eccezione al rovescio: murales, spesso “il murales”, un plurale spagnolo usato come se fosse singolare, chissà per quale strana manipolazione cultural/linguistica.
Ad ogni modo, le sfumature attorno alla parola sono positive, “progressiste”. Si legge in una corrente definizione che: “nascono da movimenti di protesta come libere espressioni creative della popolazione contro il potere, nel tempo hanno sempre più assunto valore estetico, conservando talvolta anche un valore sociale”.
murales

Estetico è un conto, “espressioni creative del popolo contro il potere” è un altro. L’immagine sopra riproduce un “murales” che illustra come i militanti dell’Isis ammazzavano i loro prigionieri. Si trova a Mosul, in Iraq. Occorre perdere un attimo di tempo per osservare come l’opera tratta il divieto islamico alla raffigurazione delle persone, un divieto inizialmente inteso per evitare che “l’iconismo” del cristianesimo ortodosso inquinasse la allora nuova fede.
La “vittima” qui evidentemente non merita la definizione di “persona”. È raffigurata in maniera convenzionale. Il boia però non è una persona, è un cane. È Anubi, la divinità egiziana – non islamica – della morte, o piuttosto, delle cose associate alla morte. Una delle sue mansioni principali era quella di accompagnare le anime dei defunti nell’oltretomba, per poi compiere la pesatura del cuore – decisiva per l’ammissione delle anime nel regno dei morti. Era colui che presidiava l’imbalsamazione delle mummie.
Anche lo stile del design, pur semplificato, richiama quello dei geroglifici dell’Egitto dei Faraoni. Cosa ci fanno Anubi e gli antichi geroglifici egiziani in Iraq? A volte, quando la lingua corrente non serve per dire una cosa che deve essere detta lo stesso, si ricade su un’altra che è in qualche modo sull’orizzonte culturale. Oltre allo scritto in arabo, non c’è nulla d’islamico nell’opera riprodotta.
La suggestione che ne emerge ha un’interessante applicazione anche in italiano: la regola dei giornalisti – almeno tra i corrispondenti stranieri, che non sono poi tanto male informati e perlopiù non “appartengono” a nessuno – è che quando la politica dà un nome in inglese a una cosa che in teoria si potrebbe benissimo dire nell’idioma nazionale – “baby bonus”, “jobs act”, ma anche antitrust”, “bipartisan”, “devolution”, “welfare” e “leadership” – allora c’è qualcosa che si preferisce non dire nella lingua materna del Paese.
Non è sempre così ovviamente, ma una certa spia s’accende…
James Ansen
Courtesy Nota Diplomatica