20131220_182928-1
Sono settanta i chilometri che separano il punto più a est della costa italiana dal punto più a ovest di quella albanese. Ma chi sono gli albanesi? L’Italia e gli italiani li hanno visti la “prima volta” l’8 agosto 1991. La nave Vlora era carica di esseri umani in fuga dopo la caduta del regime di Enver Hoxha. Le persone normali a bordo della “nave dolce” erano nude per il gran caldo, sporche perché le stive eran piene e portavano i capelli lunghi in segno di protesta verso un regime comunista contrario e ostile a mode “occidentali”. In quell’occasione però nessuno si curò di approfondire e l’immagine che arrivò agli italiani fu che gli albanesi erano quel popolo di gente nuda, sporca e con i capelli lunghi.
L’esempio è di Benko Gjata, giornalista del Centro culturale albanese, che, durante l’incontro Media e Immigrazione, parlarne come…, tenutosi venerdì 20 dicembre e organizzato dal Caffè dei Giornalisti a Palazzo Saluzzo Paesana, ha voluto porre l’accento su quanto il fenomeno migratorio (con riferimento soprattutto a quello albanese) sia stato capito male e tardi. Inoltre, quanto sottolineato da Gjata ha trovato fondamento nelle parole di Stefano Tallia che, nel suo intervento, ha riconosciuto quanto sia ancora lunga la strada da percorrere sebbene “ci si stia allontanando dall’idea di immigrazione come qualcosa di legato esclusivamente a fatti di cronaca nera e si stia andando nella direzione dell’aspetto sociale dell’immigrazione”.
20131220_184016
Tallia, parlando poi della Carta di Roma (2007) – codice deontologico che tutti gli operatori della comunicazione dovrebbero conoscere e applicare -, ha aggiunto, ricordando la campagna promossa da Redattore Sociale sull’uso del lessico, che “clandestino non può essere un individuo, l’essere clandestino è una condizione, nessun essere umano può essere definito da un termine che connota una condizione”. Immigrazione e intercultura, seconde generazioni e stranieri, rifugiati, clandestini ed extracomunitari: queste sono le parole che da un po’ di tempo si son fatte largo negli articoli pubblicati su giornali e riviste. Troppo spesso, però, si è lasciato che venissero creati luoghi comuni. L’immagine del migrante, di colui che lascia la propria terra per un futuro (in ogni caso) migliore di quello che si poteva prospettare nel Paese d’origine diventa l’immagine del violento, del malfattore o di colui che non ha nulla da perdere. Spesso, soprattutto nella cronaca nera, si è letto di “DNA violento” o  di “tratta”, “sfruttamento” e “prostituzione” come specialità dell’essere di nazionalità slava o est europea, e per finire, ancora, il traffico di droga è descritto come prerogativa di magrebini e nord africani in generale. Dunque, il messaggio dell’incontro di venerdì sera può essere riassunto dicendo che le parole hanno un valore e il lessico è troppo importante per essere trascurato o usato in modo approssimativo, soprattutto da chi si occupa di comunicazione, questo perché, come sottolineato da Davide Demichelis, giornalista RAI di Radici, “è un dovere civico quello di raccontare e un diritto del cittadino conoscere”.
Luisa Perona

Wow, this piece of writing is fastidious, my sister is analyzing these things, thus I am going to inform her Läs mer.