16 luglio 2014, ore 1.37
Tempo tagliatoTutta la sera che mi gira in testa una frase che ho copiato su un post-it senza segnare da dove veniva. L’ho riconosciuta subito, anche se il romanzo l’ho letto ad agosto l’anno scorso, ma volevo essere certa. Così ho aspettato che il kindolo (il mio reader ha un nome) si ricaricasse e sono andata a cercare la pagina esatta. Devo per forza estrarne altre parti, perché quella frase, anche se significativa, da sola non basta.
Quando ho letto il romanzo di Silvia Longo ne sono rimasta folgorata, per la sua voce, per quel modo sottile ed educato di dirti le cose senza mai eccedere o sparire sotto al peso di una storia che vuole narrare.
Quello che ho subito sentito è che il suo modo di raccontare una sola donna, Viola, è in realtà il modo di raccontare noi tutte. Il nostro modo di amare restando spesso un passo indietro. Non rispetto al successo del nostro uomo, indietro nella nostra vita. Come fosse meno importante della sua, o di quella di un figlio. Questo dare incondizionato, che si chiede alla “madre” – che però è madre anche per il compagno ed è madre anche per il padre – che si chiede come fosse naturale, tanto che a un certo punto lo diventa. Questo farsi carico di ogni respiro dell’altro. Adattarsi a tutto per lui. Rinunciare a sé, per lui.
Ecco, credo che questo dare non sia naturale affatto o meglio credo lo sia in certi casi e in certe alchimie e che in altri contesti diventi una prigione. Gabbia in cui si trova Viola, perfettamente inadeguata all’idea che lei stessa ha di ciò che dovrebbe essere.
Contorto, femminile. Un luogo in cui a noi donne capita di finire senza riuscire a farne a meno. Avere quel ruolo di “madre”. Come se il mondo intero volesse questo da noi.
Invece, come capita a Viola, questo ruolo scatena un senso di rabbia e impotenza che è capace di stritolare una vita intera e farle vestire panni non suoi. Fino alla liberazione, che è dolorosa e traumatica, che la priva di un ruolo costruito in anni di limature. Liberazione che Viola stessa desidera segretamente sentendosi in colpa e punendosi con un peso da portare che si fa insostenibile davvero nel momento in cui si trova sola con sé, e con Mauro.
Come un suo doppio, quest’ultimo, un io dialogante che la mette al confronto con tutte le sue contraddizioni di donna “madre” che rivuole per sé il ruolo di donna “femmina”, rimasto nascosto per tutti gli anni in cui ha seguito quella che “doveva” essere la sua strada. Metodica, come l’uomo che ha scelto, Viola ha lavorato per anni al suo stesso smantellamento quando si trova davanti la vita – finalmente – senza rinnegare un solo attimo d’amore ma riconoscendo tutto il non-amore che ha vissuto. Soprattutto nei suoi stessi confronti, riversandolo sulla figura di Federico per poi specchiarcisi.
 
“Oppure sì, ci amavamo, ma non era il genere di amore che serviva all’altro.”
 
Perché il problema di questa donna che ci siamo cucite addosso è che ci impedisce di essere ciò che siamo. Ci rende succubi, o violente, o represse, o infedeli, o frustrate, depresse, tristi, grasse. Ci fa rifugiare in personaggi di film o libri, illudere che la vita vera sia questa.
Poi qualcosa accade e noi ci risvegliamo e se accade davvero non sappiamo più chi siamo. Abbiamo paura perfino di respirare. Ci sentiamo in colpa se ci rendiamo conto di non essere quello che gli altri hanno sempre creduto che fossimo. Ci sentiamo “in difetto” pensando all’amore che abbiamo dato ogni giorno senza che fosse vero amore.
Un amore fatto non solo di non detto, perché a volte anche spiegarsi non basta e a volte nemmeno noi sappiamo che c’è un altro modo di vivere le cose. Un amore fatto di non visto e non vissuto, di non compreso perché in qualche modo dato per scontato. Anche senza volerlo, ed è questo il senso di quel “serviva all’altro”. Un amore fatto di gentilezze e regali, ma anche di invisibilità di fronte alle necessità del partner. Invisibilità cui noi spesso ci prestiamo senza porci domande. O facendoci quelle sbagliate.
Perché non è un non-amore, è semplicemente un amore che non fa crescere. Che non fa bene a entrambi, che permette di reiterare gli stessi errori all’infinito e di crogiolarsi nelle proprie paure, illusioni, sicurezze. Un amore comodo, in qualche modo, finché non comincia a stare stretto davvero.
 
“Alla fine avevo cominciato a immaginare una vita senza di lui, che in qualche modo si concludesse la nostra convivenza. E nello stesso tempo mi sentivo colpevole di desiderare la libertà, la mancanza totale di obblighi, una vita da spendere a piacimento solo con le mie risorse, in base alle mie necessità. Una vita mia, finalmente.”
 
Contorto, femminile. Il romanzo di Silvia è un ritratto che si adatta a ogni donna, ché almeno una volta nella vita ci si ritrova a farsi le stesse domande di Viola. Almeno una. E la risposta è vita, quella che ti sa stupire quando meno te lo aspetti e nei modi meno “comodi”. La vita fa sempre un po’ male prima di fare bene ed è il confronto con noi stesse, con la realtà, con l’altro-sconosciuto-noi che ci fa crescere e diventare le donne che dovremmo essere e non più quelle che il mondo ha pensato per noi. Donne non incapaci d’amore, ma capaci di amare nel modo giusto.
Capaci di sciogliere nodi interiori portati per secoli. Per vite intere. Capaci di usare il tempo al meglio, di non perdere una battuta. “Il tempo tagliato” non è la storia di Viola che ha perso il marito, né di lei che ha trovato un giovane nuovo amore. Non la storia di una fuga che è tuffo all’interno di un sé. Tutto questo solo per portare Viola a quello che non si è mai permessa di essere.
 
Quale frase ho trascritto? Quale ho riconosciuto come la voce di Viola e di molte donne?
“Ma c’è una cosa che voglio dirti. Anche senza amore, è per amore che l’ho fatto. Dall’inizio alla fine. Come una missione, per avere un senso. Perché nessuno soffrisse. A parte me.”
Ecco, forse dovrebbe essere diverso il senso che ci diamo. Il nostro non è “quel” dare e non è tanto questione di non ricevere in cambio, ma di ricevere la cosa giusta. Per tutte le persone coinvolte. Prima che il tempo finisca senza averlo danzato fino all’ultima nota, l’amore.
Il tempo tagliato” (Longanesi, 2012) parla di una donna, di un dolore, di un modo di darsi, di una rinascita. La storia che racconta usa il tempo – atmosferico, musicale, biologico – come mezzo per contenere la vita. Che sia racchiusa nella magia di un orologio speciale o nell’accumularsi di nubi che portano pioggia o, ancora, nelle ore e nei giorni che corrono uguali. Nel tempo che si dimezza quando da due si torna uno, nel viaggio attraverso il tempo di una consapevolezza che cresce e che prende atto di sé in un rincorrersi di dialoghi anche aspri. Di una donna che il tempo ha prima ingabbiato e poi liberato.
Silvia Longo parla di vita, descrivendone suoni e silenzi. E melodie che, sotterranee, suggeriscono quanto ci sia di “collettivo” in una singola storia, in una vita sola. Quanto c’è di ognuno di noi nei personaggi che racconta.
 

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