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Paolo Inverni torna a riproporre un’installazione di studio visit e ad analizzare il concetto di «punto di vista» in modo originale e provocatorio: ad essere portati in scena non sono i suoi lavori ma un insieme di testi e paratesti che compongono l’enciclopedia personale dell’artista e scompongono, in un certo senso, il suo punto di vista. 
Dal 7 al 9 settembre, a Barriera, il nuovo spazio polifunzionale di via Crescentino 25 a Torino, ha ospitato «Сan I see your work? Just a shadow of a shadow», lo storytelling per immagini, sculture, proiezioni, arredamenti e materiali che hanno trovato o devono ancora trovare realizzazione nelle opere dell’artista.
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Vediamo uno schermo che proietta una serie di riferimenti letterari e cinematografici, da Calvino a Lar Von Trier, da Artaud a Kandinskij passando per Micheal Moore. Vediamo una serie di fotografie scattate con lo smartphone e postate sui social network dall’artista, e uno schermo che restituisce incessantemente l’avviso «No signal». Vediamo poi, al centro della stanza, un’opera di Wolfang Laib, uno dei suoi ziggurat realizzati in cera d’api, con appoggiate al suo fianco alcune ciotoline contenenti spezie di diverso tipo che attendono di essere utilizzate dall’artista. Vediamo, ancora, una scala cromatica realizzata con le salviette acchiappa-colore, usate dall’artista per il bucato, e una luce che, direzionata su uno schermo, proietta l’ombra di una pianta. L’ombra della creazione, piuttosto che la creazione stessa, è al centro della ricerca in questa installazione.
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Attraversare la stanza allestita da Paolo Inverni è un enigma che non si scioglie mai fino in fondo – sempre che possa sciogliersi – ma che assume le sembianze di un gioco fra spettatore e artista, un gioco fatto di rimandi e indizi da rintracciare non solo all’interno dei testi presenti nella stanza ma come modello di riferimento del personalissimo percorso di costruzione di un bagaglio culturale – che poi è il proprio gusto. 
È possibile infatti ritrovare della sorta di isotopie nei diversi testi descritti: quella del punto di vista è certamente centrale. Ma è il desiderio di innescare un dialogo (con lo spettatore, con i testi ‘ispiranti’, con la galleria) a fare di «Сan I see your work? Just a shadow of a shadow» un lavoro sincretico deciso ad attraversare la barriera del personale al fine di aprirsi allo spettatore come un percorso, piuttosto che un elemento finito, in continuo divenire, in cui è possibile camminare, giocare, scoprire e scoprirsi. Ancora una volta, è la rete che tiene unito l’artista e il suo spettatore ad essere eletto come strumento preferenziale per la costruzione partecipata di senso.
Federico Biggio
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